La gemmologia a volte ha un andamento capriccioso. Alcuni argomenti entrano fulmineamente nelle hit, mentre altri restano sullo sfondo a lungo per riemergere poi tutt’a un tratto. Rileggendo un po’ i miei appunti, noto che è passato un decennio da quando ho cominciato ad interessarmi di corallo e devo dire che se è vero che se ne parla più di prima, le ragioni ci sono. Corallo sotto inchiesta, un articolo del 2010 per Preziosa Magazine Per me ed i miei colleghi i riflettori si accesero un po’ di tempo fa. A dicembre 2009 con Alberto Scarani curai un’inchiesta per Preziosa Magazine. Era un momento critico per l’industria torrese. Aleggiava la plumbea minaccia che tutte le tipologie di corallo entrassero nell’Appendice del Cites, la convenzione internazionale che restringe il commercio di flora e fauna in via di estinzione. Nell’occasione ebbi modo di intervistare Mauro Ascione, di nobile famiglia artigiana torrese, oltreché battagliero difensore della causa del corallo nostrano. Mauro mi offrì una collaborazione completa ed esauriente, per la quale non stancherò mai di provare gratitudine. Grazie a Mauro ed Alberto il pezzo fu ben accolto e discretamente letto. In effetti la storia era alquanto ricca di spunti che mi sorprendevano: vi si rappresentavano le ragioni dei due schieramenti, un fronte ambientalista, spalleggiato nientedimeno che da Tiffany, contro un manipolo di operatori di Torre del Greco. Le parole di Mauro Ascione andarono diritto al punto: “Tiffany afferma cose inesatte, fa strumentalmente una gran confusione tra madrepore australi e Corallium mediterraneo e di fatto con 700mila dollari finanzia non già la protezione delle barriere coralline ma la messa al bando dell’industria del corallo torrese”. Insomma alcune lobby spingevano per una causa protezionista che in breve si rivelò drogata da dati inesatti ed ispirata da un certo interesse di parte, una sorta di marketing al contrario. Bandire il corallo equivaleva a conferire una medaglia ai gioiellieri che lo eliminavano dalle vetrine in qualità di paladini della sostenibilità, un bel premio etico sulla pelle di migliaia di produttori e commercianti onesti. La cosa che mi sembrò subito chiara era che la campagna era tutta basata sulla disinformazione. Fu infatti una fonte statunitense, autorevole ed insospettabile, ma molto partigiana a favore delle restrizioni del commercio di corallo prezioso, ad attirare l’attenzione di Luigi Costantini, allora direttore dei corsi dell’IGI, International Gemological Institute. Mi chiese un parere per scriverne nella sua rubrica sull’Orafo Italiano. Approfittai della disponibilità di Mauro Ascione e nel centro Oromare ci incontrammo per chiarire i termini di questa fuorviante manipolazione dei dati, della conseguente confusone tra la tassonomia di madrepore e coralli preziosi. Fu in quell’occasione che a noi tre venne l’idea di un corso sul corallo, qualcosa di più approfondito dei cenni di carattere generale che vengono offerti nella sezione gemme organiche. I semi gettati dall’inchiesta che avevamo fatto stavano germogliando e ci rendemmo conto della complessità del compito, che sarebbe stato proibitivo senza l’appoggio di chi lavora la gemma. La sostenibilità ambientale, la legittimità della raccolta, la responsabilità della catena di fornitura, l’identificazione, la metodologia che doveva essere condivisa per tornare utile alla valutazione... Un bel po’ di lavoro. Un corso sul corallo? Un eldorado multidisciplinare Da Anversa era arrivato il segnale verde. Un programma di studio sul corallo, esportato in varie lingue in tutte le sedi formative IGI (International Gemological Institute) avrebbe potuto essere innanzitutto interessante, ma anche di immediato giovamento al tessuto produttivo campano, in un momento nel quale all’export si richiedeva di affiancare una più profonda cultura di prodotto. Otto anni fa, per l’appunto, questa gemma era ai margini dell’indagine gemmologica. Luigi Costantini, nonostante i miei molto relativi meriti, volle darmi il compito di impostare la struttura di questo corso. Da napoletano avrei avuto migliori possibilità di relazionarmi con i produttori torresi, senza i quali non si sarebbe potuto scrivere alcunché. L’identità corallo-Torre del Greco è un fattore molto caratterizzante, ma conosco bene quella città, vi passai molti mesi dell’infanzia e dell’adolescenza. Molti imprenditori della preziosa risorsa mi incoraggiarono. Il corallo è un esoscheletro di animaletti per le cui adeguate condizioni di sopravvivenza siamo tutti in apprensione. Occorre confrontarsi con una bella quantità di lavori di biologi marini e di zoologi. Per fortuna il ripopolamento dei banchi ed il loro stato di salute hanno una ricca letteratura e sono ben monitorati e documentati. Tra l’altro Napoli era stata sede nel 2009 di un Workshop sul corallo con una gran mole di contributi scientifici a sostegno della valutazione della sostenibilità. La storia sull’uso, sulla raccolta, sugli scambi del corallo? Un luna park di suggestioni, tracce, connessioni. Perché col corallo si può andare da qualunque parte. C’è lavoro per archeologi, nelle tombe di Catalhoiuk in Turchia dove nascevano le prime città 6000 anni fa c’era già corallo. E col corallo gli storici navigano in lungo e il largo per il Mediterraneo, da Tabarka a Marsiglia. Il corallo, nel circuito della civiltà europea cristiana segava come un cuneo la faglia del Nordafrica musulmano e gettava ponti relazionali tra mondi apparentemente chiusi in compartimenti stagni. Avessero avuto più tempo per il corallo, storici come Braudel ci sarebbero andati a nozze. Qualcosa che passa tutte le frontiere è un patrimonio per tutti gli studiosi di scienze umane. Mi chiesi: perché se ne parla così poco? Gli usi apotropaici del corallo, poi, sono una miniera per antropologi ed etnologi. Il mito della Medusa ancora risuona, con richiamo lirico, negli studi classici. Per uno come me, per il quale la gemmologia è arte di incontro e cerniera tra molti approcci, tutti questi temi furono fuochi d’artificio mirabilmente esposti da Caterina Ascione alla serata inaugurale del Ciges, il Congresso di Gemmologia Scientifica organizzato dalla Facoltà di Mineralogia e gestito da Gem-Tech a Napoli nel settembre 2013. La Professoressa Maria Rosaria Ghiara, che ci ospitava, dovette rassegnarsi: i mineralogisti incoronavano come rappresentante dell’Italia non uno degli stupefacenti vecchi minerali a loro cari ed esposti con cura in quel gioiello che è il Museo di Mineralogia di Napoli. Il simbolo che ci rappresenta non poteva essere che il corallo, una gemma organica. Il Coral Blue Book del CIBJO regola terminologia e trattamenti... I vari tasselli del mosaico componevano un quadro scientifico variegato e stimolante. Studi ambientali, biologici, sociali sembravano combinarsi. Eppure c’era da fare i conti con la realtà: nel senso più squisitamente gemmologico il corallo non ha un’estesa letteratura. I due grandi classici di Tescione e Liverino sono due testi molti ricchi e, per alcuni versi, ancora molto utili. Ma per la pratica effettiva dell’identificazione i contributi sono limitati. Anche i trattamenti migliorativi facevano registrare una certa carenza di indicazioni precise. Ceratura, stuccatura, rivestimenti. Si sapeva in cosa consistessero, OK, ma come considerarli ai fini di una corretta rivelazione? Il 7 ottobre 2015 è una data da ricordare. Le cose infatti cambiamo con la pubblicazione del Coral Blue Book. Si tratta di un’iniziativa del CIBJO, la Confederazione mondiale dei gioiellieri, un organismo rappresentativo assai autorevole nel campo normativo e della regolamentazione. Al testo si affianca una Commissione per il corallo, presieduta dall’esperto torrese Enzo Liverino e dal noto gemmologo portoghese Rui Galopim de Carvalho. Questi passi danno uno straordinario impulso agli studi sul corallo, capace di porre fine allo stato di stallo che di fatto paralizzava la riflessione e l’elaborazione gemmologica. Ma il difficile viene adesso In quel periodo lascio il pallino a Francesco Sequino, docente IGI (International Gemological Institute), che intraprende la revisione e la rielaborazione della sezione delle rilevazioni strumentali del nascente corso che stiamo mettendo a punto. Il nostro slancio entusiastico iniziale si raffredda. Francesco per la verità s’è dato un gran da fare ed ha preso contatti con vari ricercatori della Federico II. Con l’aiuto dell’inesauribile Alberto Scarani sono stati inviati in giro per il mondo coralli di varie specie ma i risultati sono sempre gli stessi e confermano sostanzialmente le conclusioni prevalenti contenuti in due studi pubblicati su Gems and Gemology e ribaditi da uno studio del Cisgem presentato al Ciges di Firenze del 2012. Cioè né né EDX, XRF, Raman o FTIR riescono ad individuare le varie specie. Gli spettri Raman separano invece efficacemente il corallo non trattato da quello riempito con resine epossidiche ed il Corallium da generi simili come il Bamboo Coral (famiglia, Isididae). Alla luce di questi dati Francesco è riuscito ad allineare i trattamenti con riempienti alla classificazione ed alla terminologia suggerita da CIBJO. Qualcosa si può dunque fare, perché ora c’è un riferimento normativo. Con un buon corredo di foto la Rivista Italiana di Gemmologia (IGR) nel settembre 2017 offre un contributo che credo sia stato apprezzato dagli operatori. Eravamo partiti anche se la strada che resta da percorrere è tanta ed impervia. Lo stesso Coral Book - come chiarito alla sua presentazione - evidenzia una certa prudenza e sembra giustamente collocarsi come un work in progress, un testo in evoluzione. Aspettando Blockchain e DNA. Gli ultimi sviluppi... Alla relativa calma dei primi tempi, negli ultimi anni s’è sostituita un’attività febbrile da parte dei soggetti rappresentativi. Assocoral ha fatto partire il percorso per rendere il corallo patrimonio dell’Unesco, ha intrapreso una robusta serie di iniziative di promozione ed ha collaborato al decreto ministeriale che disciplina i vari aspetti della raccolta del Corallium Rubrum sul territorio italiano. CIBJO nel gennaio di quest’anno, in un ricco seminario dedicato al corallo, ha fatto il punto delle proprie iniziative nel campo della sostenibilità, degli studi scientifici, della formazione. Due sono gli aspetti più affascinanti, emersi in quel seminario di Vicenza, che denotano quanto la Commissione CIBJO si sia spinta in avanti. Ha avviato, in collaborazione col Prof. Vona dell’Università Federico II di Napoli, studi per attivare una Blockchain sul corallo. Beh, questa è una notizia che da sola basterebbe a spiegare perché si parla tanto di corallo. Un registro crittografato digitale infatti potrebbe, oltre che garantire la legittimità di una catena di fornitura per forza di cose fragile e delicata, anche consolidare il valore del corallo e dei gioielli in corallo. Si veda l’esempio dei diamanti. Ma l’altro aspetto è ancora più interessante. È stato annunciato un protocollo di identificazione delle specie tramite un test molecolare basato sul DNA. Il lavoro è stato portato avanti dai biologi marini della Federico II di Napoli in collaborazione il Danat del Bahrein, presieduto da K. Scarratt, una delle più eminenti personalità gemmologiche contemporanee. L’Istituto Gemmologico Italiano partecipa al progetto e gli altri istituti sono stati incoraggiati a prendervi parte. Quando il protocollo sarà reso pubblico ne sapremo di più e se ne valuterà l’impatto sull’industria nonché le modalità per la sua applicazione. La gemmologia è un cantiere aperto che richiede confronto e condivisione Insomma, tutto fa pensare che di studi sul corallo si parlerà ancora e molto. L’International Gemological Institute sul tema sta dialogando con altri prestigiosi istituti italiani quali il Cisgem. La stessa Commissione CIBJO Corallo ha già annunciato il lancio di un corso online e precisa che “fornisce assistenza agli istituti formativi gemmologici per introdurre moduli sul corallo nei propri programmi regolari di studio”. Di certo sappiamo che siamo in ottima compagnia, s’è formata una variegata comunità internazionale di soggetti interessati a studiare il corallo in gemmologia e questo è sempre un fattore positivo. Un paio d’anni fa con Alberto ebbi modo di approfittare della gentilezza di Lucia Collaro per visitare la loro eccellente collezione di coralli al Tarì insieme a Claire Mitchell ed Eric Fritz del Gem-A. Anche da parte loro riscontrai interesse a mettere assieme dati ed esperienze. Quando il 28 maggio finalmente abbiamo presentato il nostro corso si percepiva un’atmosfera di attesa e di profonda partecipazione. Ci sono state molte domande dal pubblico. Mi sono reso conto che gli orafi ed i gioiellieri in fine dei conti non aspirano a test sofisticati, ma a conoscenze più generali ma corrette e soprattutto applicabili nell’esperienza quotidiana. Io penso che ogni studio scientifico è sempre un cantiere aperto e che, allo stadio attuale, il corallo ha più bisogno di diventare oggetto di confronto e di approcci multidisciplinari che di silenzio. A volte riaffiora un certo scetticismo corporativo del tipo: non riveliamo i nostri segreti, non spieghiamo troppo, etc. Questo è un retaggio del passato che nel nuovo millennio non trova posto. Perché si parla tanto di corallo? No, la domanda corretta è: perché se ne parlava così poco? Ecco un tasto nevralgico. Orafi, ora ci sono e ora non ci sono Ci sono tanti orafi disoccupati o male occupati. Ma allora perché, nello stesso tempo, leggiamo che grandi aziende di gioielleria italiana lamentano carenza di personale? Il 23 aprile la Stampa ha pubblicato un articolo intitolato “Non ci sono più orafi. L’industria del gioiello in cerca di manodopera”. Mi sono affrettato a segnalare sulla mia pagina Facebook l’approfondimento firmato da Michela Tamburrino: la stampa nazionale ci osserva. Nell’articolo sono esposte fondamentalmente le esperienze di due grandi marchi, stilisticamente italiani ma francesi di proprietà, Pomellato e Bulgari. La carenza di personale tecnicamente preparato li ha convinti a crearsi dei percorsi di formazione in collaborazione con altri soggetti per dotarsi in casa di figure artigianali qualificate. Così si spiega nell’articolo Sabina Belli, amministratore delegato di Pomellato: “Sta nella nostra tradizione avere una forma di affiancamento che tramandi l’orgoglio per ciò che si fa e che non può essere rimpiazzato. Un sistema che a cascata prevede un centro studi, un polo di competenza per le gemme, chi fa i prototipi in tre dimensioni che poi passano in fabbrica... La salvaguardia del patrimonio storico dell’oreficeria è in cima al lavoro filosofico-culturale di Pomellato. Ma serve uno sforzo triangolare tra i marchi, le regioni, i poteri pubblici ai più alti livelli, il ministero dei Beni Culturali perché parliamo di mestieri che permettono di esportare il lusso di cui siamo ancora i best in class”. A queste parole fanno eco quelle di Jean-Christophe Babin, Ad di Bulgari: “Siamo orgogliosi di aver ideato la fondazione Mani Intelligenti con Bulgari socio fondatore e sedici aziende valenzane partner, allo scopo di attrarre giovani della regione Piemonte per lo studio di questo mestiere d’eccellenza Le reazioni al mio post su Facebook mi danno da pensare Il mio post, che non faceva altro che mettere a disposizione il pezzo della Stampa, s’è fatto presto bollente. I tanti commenti, alquanto diversificati, mi hanno indotto a qualche breve considerazione. Ed alla fine emerge una proposta. Vado in ordine. 1. Orafi disoccupati in Italia e carenza di personale a Valenza. Qualcosa nel conto non torna. I commenti al post mettono in luce la convinzione che il percorso con i grandi brand sia complicato e non sempre soddisfacente economicamente, anche considerando che in tanti casi bisognerebbe comunque stabilirsi lontano dai luoghi di residenza. Conosco personale che s’è spostato in Piemonte con soddisfazione. Conosco qualcuno che ha mollato per altri lidi più gratificanti. Young people wanted. Pare che i più “stagionati” non interessino. 2. Il Made in Italy torna a correre. Vero, ma solo per i grandi gruppi strutturati. Pomellato e Bulgari continuano a fare cose molto belle. Fa piacere leggere che la creatività italiana è ancora molto apprezzata nel mondo. Ma lo fa solo dall’alto di realtà con grandi fatturati. Il polo milanese/valenzano concentra quasi tutto il lusso. La distanza tra superbrand, dinamizzati dal turbo dell’internazionalizzazione, e l’impresa media italiana fatta di due o tre persone si accentua. È siderale. 3. Declino della formazione. L’Ad di Pomellato rileva che molte scuole di formazione orafa hanno chiuso i battenti. Poche iscrizioni. Propone un’intesa con enti pubblici. Ma abbiamo in Italia percorsi formativi chiari, intermedi ed universitari che valorizzino l’arte della gioielleria in corrispondenza dei poli orafi regionali? Abbiamo una scuola libera che veicoli il grande deposito di “cultura” dell’arte? O piuttosto abbiamo una specie di piatto avviamento professionale? La scuola è integrata da stage produttivi in concrete realtà lavorative? Si può fare di meglio. 4. Declino della bottega tradizionale e ricerca di figure specialistiche. Molti lettori del post lamentano l’interruzione del ruolo tradizionale della formazione in bottega. Piuttosto che creare artigiani votati alla creatività pare che vengano ricercate figure da destinare a mansioni altamente specializzate. L’orafo non è cool e gode di scarsa considerazione sociale. Ancora dalla Stampa: “Belli (l’Ad di Pomellato, n.d.a.) vede genitori poco lungimiranti che preferiscono sapere un figlio insoddisfatto dietro una scrivania anziché felicemente orafo, ebanista, conciatore”. Se i cuochi sono diventati Master Chef perché gli orafi non possono diventare Maestri Artigiani? In sintesi estrema. Il destino delle imprese del gioiello - ci suggerisce la Stampa - è tracciato dai grandi gruppi del lusso dove la formazione forma l’incastonatore che incastona, il designer che disegna, i fonditori che fondono etc. Non è un più un mondo per outsiders, creativi magari geniali, entusiasti, innovativi. Ma piccoli in un mondo per grandi. Eppure nei commenti al post si scorge anche una reazione d’orgoglio artigiano. Perché abiurare all’unicità dell’oggetto orafo, alla sua irripetibilità, perché decretare l’estinzione del piccolo o medio laboratorio con pochi addetti? Siamo sicuri che assisteremo ad un processo che consoliderà gruppi sempre più grandi e globali? E che inesorabilmente condannerà a scomparire chi ha piccole dimensioni? Nella nostra città, quindi nel nostro “universo culturale”, l’orafo apriva la saracinesca a fianco dell’antiquario, dell’ebanista, del macellaio, del sarto, del vinaio etc. Stentiamo a credere che questa nostra città (città ha la radice linguistica di “civiltà”) si trasformi in una specie di supermercato indistinto che spaccia oggetti di cui non sappiamo nulla, che non abbiamo visto produrre. I giovani che si misuravano col proprio futuro imparando un mestiere d’arte ora piuttosto si affidano inermi al vaticinio circense di centri per scommesse che sostituiscono, inesorabili e beffardi, i laboratori e le botteghe. I commenti al mio post hanno allora indicato una sfida. Perché non fare un talent per i creatori di gioielli? Guardate cosa è successo con la cucina in TV. Oggi potete dividere gli italiani (ed il mondo) in prima e dopo Masterchef. Il format non ha solo lanciato dei grandi virtuosi dei fornelli. Ha fatto molto di più: ha alfabetizzato milioni di persone ai fondamentali dell’arte culinaria, ha affinato palati, riscoperto ricette e territori. Ha rinfocolato una passione che in Italia non s’era estinta. Se adesso mangiate migliori carbonare, se la pizza è infinitamente migliore lo dovete a Masterchef. Alla stessa maniera un talent sulla creatività artigiana risveglierebbe quel gusto sopito ma non estinto che persiste nella cultura italiana (ed europea) di vedere armonia a partire dalle piccole cose, se fatte con il fuoco sacro di uno sfizio, di un amore verso l’unicità, l’estrosità, la maestria. Un Talent orafo sarebbe un grande successo per la spettacolarità del disegno, la forgia delle forme e delle leghe, la magia della fusione, la sinfonia degli accostamenti dei colori delle gemme, la geometria dell’incastonatura. Se i grandi brand lo finanziassero acquisirebbero meriti sociali, perché concorrerebbero a ripristinare il grande senso della bottega diffusa, un sano presidio culturale tipicamente italiano con secoli di storia. Sono convinto che si creerebbero molti posti di lavoro. L’attenzione dei media infatti rimetterebbe in funzione il vero motore trainante dello sviluppo, il pubblico. E la gente, spente le TV, ritroverebbe sotto casa le peculiarità smarrite, le unicità, le prerogative artistiche. Mille modi per fare il traforo, come mille modi per cucinare l’abbacchio. Le grandi firme che fanno i trend del gioiello, potrebbero inoltre beneficiare di artigiani già formati da inserire rapidamente nelle strutture ora vuote. In fondo cos’è la RSI, la responsabilità sociale d’impresa, se non riequilibrare con iniziative giudiziose ed utili a tutta la comunità le ingiustizie e le storture che le attività economiche inevitabilmente, e anche senza volerlo, infliggono alla società? Senza gli uomini che li pensano, i prodotti non servono a niente. C’è chi scopre di essere invecchiato quando gli si cede il posto in autobus o perché sì affanna a salire al secondo piano. Io l’ho scoperto in un recente incontro, allorché ho posto una domanda ad un influente oratore. La domanda era più o meno: “In che modo gli studi su questo specifico argomento si possono armonizzare?” E lo chiedevo in qualità di delegato di un importante istituto gemmologico internazionale e di editore di una Rivista, giovane ma, credo, già rispettata. La risposta mi ha raggelato. Premetto che conoscevo l’oratore per la sua chiara fama, ma non di persona. Premetto inoltre di esser da molto tempo consapevole che la gemmologia è più ortodossa che ecumenica. Come si legge dal titolo, non sono dunque nato ieri e non mi aspettavo né un invito a pranzo e neppure che mi si consegnasse un’amichevole Marlboro con una complice manata sulla spalla. Volevo solo un’indicazione su come raccordare le ricerche. La risposta è stata più o meno: “Nessuna risposta è dovuta a lei, poiché ha scritto cose scorrette”. Agghiacciato, ho tentato di sapere quali cose delle tante, troppe che scrivo fossero scorrette. Ahimè, tempo scaduto, non si poteva continuare. L’incontro era finito e poco importava che qualche decina di persone avesse assistito alla mia scottante umiliazione, privata altresì della legittima facoltà di replica. Mi sono allora precipitato verso quel severo oratore. Ma mi sono dovuto fermare: concedeva pacatamente interviste. Non si creda che in quei lunghi minuti d’attesa covassi rabbia. Io provavo timore. Qualche refuso, qualche errore di battitura, qualche statistica inesatta? E, se in buonafede, perché non si potrebbe sbagliare? Beh, si potrà sempre rimediare. Ma, prima, devo capire cosa può aver causato tanta sfrontata asprezza. Finalmente avvicinai il mio austero censore e gli chiesi ragione dell’attacco, già pronto a scusarmi se mi avesse informato di un mio qualche infortunio nella scrittura. Qual era dunque l’articolo, l’argomento che aveva guadagnato la bile furiosa del suo inflessibile scrutinio? La sua prima risposta, in pubblico, mi aveva fatto l’effetto di un cazzotto grintoso ed sferrato dalla tribuna da un insospettabile gentiluomo che di colpo inaspettatamente si rivela un boxeur. La seconda risposta, in privato, mi ha ridotto al tappeto, esanime. Incalzato dalla mia ansia mi ha detto: “Va beh, non mi ricordo bene esattamente cosa hai scritto...” Tutto sarebbe filato liscio se quello non fossi stato io ma un ineffabile monaco tibetano, senza l’orgoglio di un ego, seraficamente immerso in olimpica indifferenza. O Mr. Bean in un nuovo, esilarante episodio. Invece ero io. E da quel giorno sto aspettando che finalmente una lettera, una telefonata, un atto di addebito mi arrivi preciso a indicare l’errore. Invece l’accusatore, dopo uno scambio di reciproci biglietti da visita, mi ha lasciato al vuoto del mio destino. Non l’ho più sentito. Ed allora mi sono risvegliato dal miserevole knockout, convinto di essere stato sbalzato in un universo fuori dal mio tempo. Compio 170 anni. Devo essere nato più o meno nel 1850, quando i nuovi Parlamenti si sostituivano ai Palazzi Reali e le Università ai Templi. Tramortito, ho ricordato i nostri padri che raccoglievano umilmente dati e li discutevano col metodo del confronto della scienza positivista. Quando le cose tu le potevi affermare e qualcuno te le poteva contraddire, quando il materiale scientifico veniva confrontato con ardore, ma sempre con rispetto. Potevi riscontrare, verificare oppure confutare una tesi. Dare ragione, cambiare idea o far cambiare idea. Essere avversario ed amico. Sì, dopo le mie circa 170 candeline vedo che questo mondo è diverso da quello. I nostri padri compilavano ricerche maestose perché noi ci facessimo una libera opinione. I nostri figli, pure disponendo di miliardi di informazioni, non sanno neanche più abituati a cercare. E noi, a volte, senza nemmeno conoscerci, comunichiamo privi di grazia e con urgenza selvatica, come si vede fare in alcune chat maledette in cui capita di precipitare imprudentemente nei social. Vorresti dialogare ma ti senti goffo di fronte ad argomentazioni generiche e fumose. Può ancora capitare quel che è capitato a chi s'è trovato sul banco degli imputati con una pubblica accusa che di nome faceva Andrej Vyshinskji, Procuratore Generale dell'URSS nella Mosca delle Grandi Purghe staliniane del 1935-1938. Negli stessi anni il Sig. Josef K., nel romanzo di Franz Kafka scopre di essere imputato in un processo per accuse che non conoscerà mai. La sua padrona di casa gli dice per rassicurarlo: “Lei non deve prendersela troppo a cuore. Che cosa non capita nel mondo!” Non bisogna dunque far caso a condanne basate su accuse di cui nemmeno si conoscono motivazioni? Bisogna farci caso invece. Se questa è l'aria che tira, tira un brutta aria, amici miei… Lettera a chi vuole iniziare o continuare gli studi di gemmologia. Siate colleghi, non avversari4/12/2018 Queste righe iniziali che scrivo ve le dovrei risparmiare, però leggetele. Perché? Perché è talmente evidente, è così innegabile, è così logico che non esista una scuola unica, un Istituto che sia la somma di tutti gli altri, che ribadirlo è noioso. Se non esiste un uomo uguale ad un altro, come potrebbe esserci un docente uguale ad un altro? Scegliere un indirizzo di studio o un Istituto non può mai comportare la rinuncia al confronto. Ascoltate la stessa musica da sempre? Vedete tutte le sere lo stesso film? È ovvio che storie identiche nella sostanza si possano raccontare in milioni di modi differenti. Io ricopro una carica in un primario Istituto gemmologico internazionale. Se vi dico che è il migliore del mondo, che dopo aver studiato con noi troverete senza dubbio lavoro, che è il più conveniente, che non dovete più guardarvi in giro, mi credereste? Spero di no. Per formarsi in gemmologia in Italia, grazie a Dio, esistono molti soggetti specializzati. Meglio scegliere che andare in fila ordinata da pochi. Meglio l’offerta che il monopolio. E se prendete la strada di una delle scuole primarie, non sbaglierete mai. I sistemi possono variare ma posso dirvi per esperienza che i livelli di pratica e di teoria acquisibili sono tutti mediamente accettabili. Per sbagliare bisogna rivolgersi a centri non attrezzati, gestiti da dilettanti o da inesperti. Insomma, per sbagliare ci sono sempre tanti modi, ma dovete proprio andarvela a cercare. Quindi concentratevi su scuole autorevoli che abbiano credibilità in più paesi del mondo. Oggi le competenze si controllano a livello internazionale. Può influenzare la scelta la prossimità territoriale. Perché no? Stabilirsi fuori dalle mura è un costo. L’offerta esistente offre corsi in tante località ed anche diverse densità delle ore di studio. Potete scegliere, con medesimi ritorni di apprendimento, tra corsi che diluiscono e corsi che condensano le ore di insegnamento, a seconda delle vostre disponibilità di tempo. Potete cominciare con un Istituto, acquisire un livello e continuare con altri. Chi ve lo vieta? Se ci completa perché non fare un salto in alto alla Sorbona per il dottorato provenendo magari da pur rispettabili facoltà universitarie di Salerno, Cosenza etc? Perché non passare per Thailandia, Belgio o California, se quello che ci serve di gemmologico è più in alto e non lo trovò più a Roma, Napoli o Milano? Ma quello che più conta è restare immersi nel vivo della pratica anche dopo aver conseguito i propri titoli, da chiunque essi vengano rilasciati. Purtroppo esiste una parte di studenti che non hanno compreso che devono tenere accesa la propria curiosità oltre l’Attestato incorniciato in bella vista. Scegliete allora dove ci sono ben visibili orizzonti di pratica, di applicazioni per l’identificazione e la valutazione. Dopo aver conseguito un titolo fatevi attrarre dai laboratori più carichi di lavoro. Mettete gli occhi negli oculari degli addetti alle gemme presso le aziende che importano o tagliano pietre, più ne transitano meglio è. Se avete una gioielleria di famiglia con un genitore gemmologicamente pigro o se entrate in rapporti di collaborazione con strutture ancora impreparate al check tecnico, portate lì i vostri strumenti e rendetevi indispensabili. Ogni ramo scientifico ha bisogno di coordinare e raffrontare l’oggetto ed i metodi della ricerca, la didattica. Nei congressi ciascuno riporta e verifica lo stato del proprio lavoro. Abbiate sempre rispetto e curiosità per le esperienze maturate dagli altri, in altri ambienti, in altre scuole. Tutti possono insegnarvi qualcosa. Sono i vostri colleghi, non i vostri nemici. Motivi per cui vale la pena comprarsi le pietre viaggiando e non farsele mandare da Amazon31/10/2018 Non necessariamente in ordine di importanza. Motivo 1. Missili che ti sparano via dalle piccole cose quotidiane Non ho mai considerato gli aerei dei normali mezzi di trasporto, quanto delle prodigiose macchine in grado di modificare il tuo stato mentale. Quando c’entri sei una cosa, hai ancora il frastuono e la fretta dei preparativi, l’angoscia di aver dimenticato qualche lista, qualche campione o l’idropulsore. Quando esci, sei altro. Le miglia ti hanno polverizzato le tensioni e procedi senza più paure. Bisogna sapersene andare. Morire sarà un po’ così? Motivo 2. Il teatro delle trattative Una delle più disastrose conseguenze di comprare le pietre (e tutte le altre cose) su Amazon (e su tutte le altre piattaforme) è che diventi un cliente cieco, non puoi guardare la forfora sul colletto dei venditori, le rughe che tradiscono l’ansia. Devi perderti per sempre quelle belle facce da schiaffi che ti vogliono subito fare fesso, quelle maschere, quei ragionamenti infondati, quella cazzimma nascosta agli altri ma visibile al napoletano. Oppure la soddisfazione dell’accordo basato su un compromesso onorevole. Ti tolgono lo status di negoziatore indipendente della libera repubblica di te stesso. Motivo 3. Conoscere gente assurda Cioè quel giulivo brasiliano che una domenica mi portò in giro per mezzo stato di Minas e il lunedì quando mi aveva convinto ad andare a prendere le acquemarine da lui, scomparve nel nulla. Oppure quel brutto ceffo che mi portò in una barchetta su un’isola dove c’era una pearl farm e mi propose un gentlemen agreement immediato ma dovevo portargli sull’isolotto entro la serata 30.000 dollari. Oppure quel poderoso jefe colombiano che mi obbligò a scolarmi una cassetta di birre mentre mi sfidava (ridicolizzandomi) con delle specie di bocce che esplodevano quando le colpivi. Un leghista feroce che nel 1996 mi insultava in aereo verso il Sichuan e che poi si ubriacò con me a Chengdu perché non poteva capire il menu, era tutto in cinese, e io ordinavo portando i camerieri col naso nei piatti degli altri. Naufragammo tra enormi quantità di zampe di gallina. Non c’era altro da fare se non bere brandy. Motivo 4. Gli effetti sorpresa delle cose inaspettate Per esempio le scimmie di Jaipur. Non esiste una volta in cui, beffarde, non siano comparse sui tetti. Tu con lo sguardo sugli angoli degli smeraldi e loro che si tuffano dalle terrazze. Interpretano come liane i cavi elettrici, baronesse rampanti con il capriccio di essere loro a colonizzare te, dalla città ricavano una giungla. L’improvvisa apparizione degli adoratori di un topo albino. Oppure i temporali monsonici, tiepidi e violenti, che obbligano a chiudere le carpette. Le inondazioni di sole diventano lingue di penombra. In un incanto in cui spariscono gli uomini, e le cose vengono risucchiate in un vortice, che cosa significa più un oggetto prezioso? Motivo 5. La sciattezza pigra degli impiegati aeroportuali, quando si torna “Quello era daaa Lazio... glie faccio... sta artr’anno se ne vanno in serie B...Aoh ma io stavo de turno mercoledì...” Bar subito un po’ nevrotici, impiegati seccati, camerieri pigri, rivendicazioni e torti subiti. Benvenuti in Italia. For the better for the worse, it’s your country. Motivo 6. Il tuo gatto che finge di non ricordare chi sei Il tuo gatto non vorrebbe tutta questa vita, questo dinamismo futurista di aviatori con le prospettive rovesciate viste dall’alto. Perché lasci il terrazzo e le federe? Non ti basta dormire, inseguire le ombre o le lucertole? Invece no, gli apici centrati, le faccette che si devono incontrare bene... E così quando torno per un po’ non si struscia ma passa severo tra le valigie che esplodono di odori drammatici ed esotici. Motivo 7. Aprire le carpette in Italia Il rito dell’apertura delle carpette con le pietre che hai comprato qui e lì nel mondo viene officiato da vestali austere e sacerdotesse inflessibili che ti dicono cose del tipo: “Ma hai trovato solo queste?”, oppure “Sono troppo incluse!” Tu, per propiziare il loro benigno gradimento, resti in un angolo della scrivania a salmodiare tante orazioni quanti sono i dollari che hai speso. Motivo 8. Il rimorso per le pietre perdute Il rimorso è il più facile dei sentimenti. È davvero alla portata di chiunque, basta non avere le cose che desideri. Inoltre se non sei veloce - o se non offri abbastanza - le pietre non te le danno e questo davvero ti facilita il compito di recriminare. E alla fine puoi scoprire il concetto sanscrito di aparigraha, il non fare del possesso una ragione di vita. Ti vendono l’aparigraha su Amazon? Motivo 9. Vedere il mondo cambiare, perdere cose cui sei abituato Per comprarti le tue pietre non devi semplicemente viaggiare, piuttosto devi imparare la difficile arte di tornare negli stessi luoghi. Non ti puoi aspettare sorprese tutte le volte, ma puoi verificare, sconcertarti o assaporare i cambiamenti veloci, i grattacieli dove non c’era nulla. E i cambiamenti lenti, la chiusura di una cafeteria dove andavi da sempre, la sedia vuota dove stava il vecchietto. Devi imparare che non puoi opporti sempre alle cose che scorrono. Motivo 10. La felicità di quando arriva il sì del venditore Caspita, allora ce l’ho fatta... È eccitante, come quando quella ragazza ti fece capire che le piacevi. Era impensabile e adesso è fatta. Ma aspetta... non è che ha acconsentito troppo presto? Non è che i rubini sono troppi? Non è che poi che questi Ceylon in Italia mi diventano troppo scuri? Forse potevo aspettare prima di aumentare l’offerta. Forse quell’altro lotto era più conveniente... forse quell’altra era più carina. E poi miracolosamente, nel quieto ronzare dell’aereo che ti riporta a casa, nella tua mente tutte le pietre diventano bellissime. Non sai come andrà a finire ma parafrasando le ultime parole di un bel film brasiliano, “Tenho saudade de meus viajens, tenho saudade de tudo”. La convocazione Una delle più entusiasmanti convocazioni della mia vita avvenne nella primavera del 2008. Fui nientedimeno interpellato per redigere articoli sul mondo delle pietre. Chiunque mi conosca nella mia principale professione sa anche della mia passione nascosta per la scrittura. Solo che a me era toccato un destino tiranno. Quando, appena più di un ragazzo, cominciai a aprire le carpette di rubini e smeraldi, avevo infatti dovuto inevitabilmente mettere i tappi sulle biro, dimenticare il ticchettio della macchina da scrivere e lasciare tastiera e stampante al dominio esclusivo ed inesorabile della compilazione delle fatture. Poco tempo per altro. Leggere, sì. Ma dovetti dimenticare di scrivere. E dunque l’invito di Giovanni Micera, non tanto a me, ma allo scrittore dormiente in me, perché considerasse di collaborare col suo nascente Magazine, prima mi lusingò, poi mi inquietò. Ne avevo le capacità? Avrei avuto la necessaria autorevolezza? Comunque il Paolo dormiente (uno sconsiderato avventuriero/sognatore) accettò di slancio. Ma mi pose delle condizioni. Avrei dovuto svegliarlo per procurarmi le armi e le munizioni. Ricorsi innanzitutto alla collaborazione di uno specialista tecnicamente inappuntabile, il grande Alberto Scarani. Per mia buona sorte accettò l’inaccettabile, scrivere cioè a quattro mani. Non lo si può fare se non si ha un profondo rispetto reciproco. Ne sarebbe conseguita una meravigliosa sintonia di penna e di intenti, che fortuna! Da lì sarebbero nate idee eccellenti, perfettamente funzionanti ancora oggi in un sodalizio saettante di progetti. Il secondo strumento che mi convinsi ad usare è dato a tutti, non era nulla di nuovo. È quello che ha improntato tutta la mia vita, non solo professionale. Studio e studio continuo. Se serve dobbiamo metterci a qualunque età, senza complessi e vergogna, sui banchi di scuola. E se non si capisce, provare e riprovare. Quando venne fuori Preziosa Magazine, per la sezione gemmologica bisognava trovare la giusta strada. La Rivista aveva già uno stile ben marcato che prevedeva contenuti di livello in un frame moderno, tutto visual ed eleganza. Il Direttore risolse tutto nella maniera più pratica: lasciò liberi tutti, dormienti e svegli. E ce la cavammo. Una notevole attestazione di stima per un dilettante come me, ma anche un investimento sulla mia testardaggine, sulla mia voglia di riuscire. Come parlare di gemme senza scocciare? Parte Preziosa Ci guardammo attorno. L’approccio italiano al giornalismo gemmologico si poteva riassumere in ciò che io chiamo il modello Grande Bellezza. Eccolo qui in due parole. Fulminante Metafora per il titolo (tipo: Smeraldo, paradiso verde; Zaffiro, l’impero del blu etc.) e poi giù con proprietà, etimologia, pezzi famosi, giacimenti, leggende, credenze, etc. Insomma, un approccio apologetico o, se volete, agiografico. Essendo le gemme come doni divini immutabili, il gemmologo non ha che da officiare il rito di celebrazione della loro santa bellezza. Niente di male (la gemmologia del trionfo delle classi medie, dall’epoca vittoriana ad ieri, questo doveva fare). Ma neanche niente di che. Perché la Grande Bellezza delle Gemme è obsoleta? Perché pretende di continuare ad elevare al grado di notizia delle semplici annotazioni rassicuranti. Diamante significa indomabile, i Rubini migliori non sono riscaldati, gli zaffiri migliori ma introvabili vengono dal Kashmir etc. Provate a superare il terzo paragrafo. Le vere notizie non dovrebbero essere quelle che escono dal solco della normalità? Questa convinzione ci fece puntare sui trattamenti, ossia le forme devianti dall’ordinaria grande bellezza. E così Preziosa nel gennaio 2009 batte un po’ tutti sul tempo ed offre un documentato reportage sul rubino con infiltrazioni di sostanze vetrose. Era un lavoro non solo di allerta (truffe già venivano segnalate, ma molte furono evitate proprio grazie all’attenzione che ne derivò), ma anche di servizio. Alberto sottopose i miei campioni ad una specie di crash test, imparavamo da Quattroruote più che dall’editoria specializzata. Cosa succede al rubino quando lo trattiamo con sbiancamento, o con ultrasuoni, o con detergenti? In sostanza, nella vita di tutti i giorni della massaia o della manager, che fine fa un corindone riempito di agenti estranei quali il vetro ed il piombo? Una misera fine, in barba alla speculazione dei lestofanti che lo avevano venduto a 1000 euro anziché a quegli onesti 50/100 euro dell’effettivo valore. Non sta a me prendere meriti, sicuramente molto meglio si sarà fatto altrove. Ma una cosa la possiamo rivendicare, la tempestività del pezzo. Con lo stesso spirito di servizio Preziosa Magazine ha veicolato lavori di compilazione sulla diffusione profonda dei corindoni, sulla diffusione superficiale, sul tema del riscaldamento, sulle tormaline, sugli spinelli, sui granati, sulla questione dell’origine geografica, sulla macrofotografia delle inclusioni. Tutti gli articoli finivano sempre con interrogarsi quanto quelle gemme valessero effettivamente. Ma imparai ancora di più. E cioè che la divulgazione gemmologica periodica non può e non deve inseguire ad ogni costo i colpi ad effetto. Parliamoci chiaro, gli scoop sono rari. Quante volte si procurano allarmi solo per calamitare un po’ di attenzione sui propri canali? Molte. E quante volte capita proprio a te o i tuoi amici di identificare nuove manipolazioni di abbellimento? Mai. Non ci stupiamo, alcune notizie sono create per ottenere breaking news a buon mercato. Ecco perché ho pensato che potesse funzionare bene anche un’onesta focalizzazione su alcuni argomenti controversi. Quanti in Italia avevano afferrato le nuove frontiere dell’aggiunta di berillio nei corindoni? Cosa rispondere quando ci chiedono se è possibile attestare la provenienza geografica degli zaffiri e degli smeraldi? Fare il punto della letteratura scientifica, render conto dei casi vivi riscontrati sul mercato, verificare le quotazioni, illustrare i criteri di identificazione. Questo non era un colpo, certo. Ma credo che abbia funzionato bene lo stesso come informazione. Peccato solo che in digitale le foto siano sparite. Io, almeno dal mio iPad non le vedo più. Quei lavori sono ancora vivi. Te la senti di tenere un blog sulle pietre? Credo me lo disse al telefono. “Paolo, raddoppiamo. Te la senti di tenere anche un blog? Ho già il titolo: “Parole di pietra”. Questo fa un Direttore, vede cose che gli altri non vedono. Il fatto però era che non lo vedevo neanche io. Ok, aveva varato una serie di fili diretti con i lettori. Ma vi scrivevano giornalisti esperti e titolati quali Maria Rosaria Petito, compagna di Giovanni Micera, Annalisa Fontana, il compianto Gianni Roggini. La comunicazione intorno al mondo orafo era il loro pane quotidiano. Io da dove avrei potuto iniziare? Carta bianca. Nei due significati. Nel senso della solita massima fiducia in quella che sarebbe stata la mia impostazione, da parte di Gianni Micera. E fin qui OK. Ma anche nel senso di carta vuota, carta che stracciavo, appallottolavo, carta che ricaricavo e che rimaneva intatta. Gli aspetti tecnici erano già negli articoli, che dire d’altro delle pietre in un blog? Mi infilai in rete, che si faceva in America? No, non era lontano che dovevo cercare. Una notte capii. Il Direttore mi aveva invitato a tirare fuori le mie avventure, il mio punto di vista soggettivo. Esattamente come si tirano fuori le gemme, come si mettono assieme, come si sgrossano, come si perdono. Chi ci lavora non può non estrarne storie. Sembrano insignificanti, proviamo. Forse non lo sono. La narrazione sarà personale, va bene. Scagliamo le pietre nello stagno e vediamo cosa succede. Il primo blog non lo dimenticherò mai. Mi venne come al solito come in sogno nei miei venti minuti di jogging. Era la storia di due opali che comprai. Uno era un fossile che acquistai per caso e che persi per incuria. Un bel pezzo, una conchiglia da almeno tremila euro. L’altro era poco più di un sasso che divenne, con mia sorpresa, una vela nel gioiello di un cliente. Scrissi di getto. Rilessi. Mi meravigliai. Era un piccolo racconto, c’erano ritratti, ambienti. Lo avevo scritto io? Anche in questo caso non pretendo di giudicare. Sarà pure una pagina modesta. Ma m’era piaciuto un sacco scriverla! Dietro il gioco di colore degli opali, c’era la vita. Ci trovai del movimento. Si percepiva un viaggio, si intravedevano le emozioni, la voglia, il buio, un senso cupo ma anche di entusiasmo. Non importa il valore di quello che stava scritto. Importa che avevo trovato una strada, la mia strada narrativa o se vogliamo il Logos. Quel filo cioè che rivitalizza le pietre, rigenera i legami atomici dal rigor mortis dei puri dati quantitativi e le riannoda al mondo delle relazioni umane. Il logos delle gemme non potrà mai fare a meno delle emozioni Rilessi mille volte. Fino ad odiare quel mio primo blog. Era troppo? Era troppo poco? Partimmo. Col tempo Giovanni mi spingeva a ridurre i paragrafi. Grande lezione, togliere ma senza diminuire le faccette, il brusio dei negozi o il rumore delle botteghe, il sapore orafo. Va beh, è andata. Ora sono passati otto anni. Preziosa Magazine è leader. Il Direttore ha fatto ancora di più. Ha lanciato un proprio canale video, è in TV, è nel ramo bijou, promuove l’occupazione, ha fatto inchieste eccellenti. I tempi della comunicazione cambiano in fretta e i blog su Preziosa non ci sono più. E allora posso rileggerli senza condizionamenti, i miei e quegli degli altri. La verità? Per me restano interessanti. Ma la cosa più bella di tutto è che, piaccia o no lo stile, risfogliandoli sullo sfondo si vedono i cambiamenti sociali. Si leggono le evoluzioni della tecnica, il passaggio di cultura dalla bottega all’impresa, il prosciugarsi ed il rinvigorirsi dell’ispirazione, il conformismo, la piattezza e l’audacia dei tagli, la riluttanza o la propensione all’innovazione, l’emergere di player minerari monopolisti, la decadenza e la ristrutturazione dei modelli fieristici, il precariato dei giovani orafi. Tutti questi temi mi sembrano ancora dannatamente attuali. Sono grato al Direttore Micera ed a tutto il gruppo del Magazine. Preziosa è diventato un polo informativo catalizzatore di quello che oggi si chiama fashion. Ha ridefinito il concetto di gioiello e ne ha innovato l’immagine. E tutto questo nasce a Napoli, possiamo esserne orgogliosi? Dopo il primo, possano arriderle ancora altri decenni di crescita! Quello che resta a me è quella spinta iniziale, quell’impulso a vedere il mondo dietro le pietre, i giochi di potere dietro la facciata, la profondità investigativa che non può non essere ricerca chimica e fisica sistematica col conforto delle scienze sociali. Le parole di pietra, come le ha definite il Direttore, sono i sassi che il rigore dell’approfondimento lancia nel conformismo piatto degli stagni, il Sunset Boulevard della Grande Bellezza, il dormiente risvegliato che poggia uno sguardo sereno sulla meraviglia. L'opale perso e l'opale ritrovato di Paolo Minieri (testo integrale da Preziosa Magazine) Ogni volta che suono il campanello del mio tagliatore cinese di opale credo che mi rispondano che è morto. Mi sono fissato, m’è successo anche tre settimane fa. “Ecco – penso – ora viene la segretaria e mi dice della disgrazia”. Poi lo scorgo: si tratta d’un omino d’età imprecisata, ma certo non giovane, un po’ curvo, pallido e sempre silenzioso. Non conosce l’inglese, mi sillaba in cantonese e io rispondo in italiano. Le sue movenze lente m’appaiono ispirate ad una solenne e tutta orientale modalità di risparmio energetico. Due anni fa, poi, era così debole e magro a causa del clima a gennaio insolitamente freddo che mi andai convincendo (sono le convinzioni del viaggiatore d’affari causate un po’ dall’istinto ingannato dal jet-lag e un po’ dalla solitudine) che quello sarebbe stato l’ultimo opale che mi vendeva. Feci dunque il mio lavoro in una rispettosa e immaginaria atmosfera sepolcrale; mentre le gemme mi scivolavano dalle mani e le migliori si depositavano come per incanto al mio lato, vibravano meste le note cupe d’un requiem d’addio nel buio del laboratorio. Ma in questa scena malinconica a suggestionarmi si mise pure l’opale. Il suo gioco di colore mi rinfocolò in un attimo la fiamma della gioia di vivere (ma in realtà il tagliatore cinese aveva solo la tosse): ad ogni inclinazione della mia mano come non mai sfavillavano i suoi infiniti arcobaleni, tutti astri luminosi nella penombra cinese. Solo il poeta napoletano Raffaele Viviani, allo stato delle mie conoscenze, rende, in versi però ispirati alla luce del sole che illumina la donna amata, il gioco di colore dell’opale (“vedarrissi migliare ‘e culure, mo’ russe, mo’ verdi, mò lilla, mo’ gialle”). Venne servito il tè, poi passammo a tagliare e lucidare. Sempre ritocco i pezzi per fare coppie, parure, forme speciali. In effetti è qui che viene il divertente: manipolare le gemme a modo proprio, adattarle ai mercati di riferimento, ridisegnarle. Il vecchio non mi contrariava, anche quando le mie idee gli sembravano pura follia, quando magari violavo, a vantaggio delle forme, le regole millenarie della massima resa del grezzo. Era come se il taglio della gemma lo resuscitasse ai miei occhi. Volli tuttavia comprare (a futura memoria) due pezzi strani senza praticare modifiche e ritagli. Una suggestiva spirale opalizzata e un bizzarro pezzo storto, vagamente triangolare. Li aveva visti così e così il vecchio saggio li aveva lasciati, una lucidatina e via. Del resto l’opale ha una struttura amorfa e si presenta spesso in forme grezze insolite. Visto che nella mia allucinata visione il tagliatore sarebbe presto passato a miglior vita, tanto valeva accaparrarsi qualcosa di veramente suo. Spiego queste cose al solo scopo di testimoniare che questi due pezzi non li avrei acquisiti in una razionale seduta di lavoro, li comprai invece sotto gli influssi di un fenomeno di autosuggestione. Vi sembrerà strano ma gli italiani non amano gli opali storti o insoliti. La caratteristica spirale si rivelò essere un raro fossile. Facemmo giusto in tempo a fotografarlo che – destino atroce e me tapino – andò perduta durante le pulizie del mio ufficio. Lasciate che io stenda un velo pietoso su tale imperdonabile disattenzione. Del pezzo storto mi dimenticai, come ci si dimentica di tante cose quando un evento luttuoso (la dipartita inaspettata di un pezzo da museo) ci accade a bruciapelo. Altre visite al laboratorio dell’opale, anche recenti, mi hanno confermato in vita l’inconsapevole tagliatore (che parti del corpo si toccheranno mai i cinesi per fare gli scongiuri?); altro opale abbiamo progettato e lavorato. Poi, circa due settimane fa, sono andato a incontrare un amico-cliente che non vedevo da tanto. Era solo un saluto. Lui era dietro la scrivania ad armeggiare con un oggetto sul disegno di una barca. “Tu non c’eri – mi dice – ma l’ho comprato al tuo stand a Vicenza”. E quello che risorgeva alla mia attenzione era l’opale storto che la fantasia del mio amico stava trasformando nella vela di una nave d’oro. Tutto l’opale geometrico che io vendo immediatamente lo dimentico presto ma l’opale storto no, aveva questa storia da raccontare. Chi opera nel ramo gioielleria ha aspettato a lungo un’inchiesta Quando si è stati spettatori di un episodio che diventa notizia di cronaca è interessante poter controllare quanto accurata o meno sia la rendicontazione che ne farà un giornalista. Ero lì, so le cose perché le ho viste. Posso verificare. Ma il rendiconto è soddisfacente? Non sempre. Motivi? Una certa sciattezza nel procurarsi le fonti, ricostruzioni nebulose dei fatti, non solo le stesse parole ma addirittura le stesse frasi, frutto di pigre e distratte operazioni copia e incolla. Questa premessa per dire cosa? Che, quando nel 2016 Milena Gabanelli, tra i pochi rimasti a fare inchieste scomode ai poteri forti, ha messo nel mirino i diamanti, noi del ramo ci siamo incollati agli schermi. Nell’attesa qualcuno era anche preoccupato. Questa volta possiamo fare noi il check, sappiamo di che si parla. Milena riuscirà mai a ricostruire la maledetta, intricata storia dei diamanti venduti a prezzi stellari, con la complicità dei poteri forti, ai poveri risparmiatori italiani? Un po’ di chiarezza avrebbe reso giustizia di soprusi che gli operatori avevano sotto gli occhi. Istituti improbabili e senza scrupoli, teste di legno del ramo bancario, hanno fatturato miliardi di euro facendo credere che i diamanti fossero dei titoli negoziabili. La truffa è andata avanti per oltre un decennio senza che qualcuno, tranne voci sporadiche tra cui la testata napoletana Preziosa Magazine e Federpreziosi, si facessero carico del dovere morale di fare il lavoro dei giornalisti. La corazzata bancaria colpita e affondata è costretta alle multe ed ai risarcimenti È andata bene. La potenza d’urto della macchina giornalistica di Report ha fatto crollare la miserevole messa in scena che permetteva la vendita di diamanti sopra i prezzi di mercato, tramite gli sportelli bancari e con tanto di listini spacciati per indici di borsa sul Sole 24 Ore. L’indisponibilità degli istituti di credito a motivare la propria colpevole complicità all’inganno s’è sgretolata come un castello di carta. Adesso, udite udite, stanno addirittura avviando i risarcimenti. Come ha fatto il giornalismo d’inchiesta a risvegliare dal torpore l’Antitrust? Come è riuscito a costringere l’Authority a comminare multe alle banche? A ridurre i truffatori dell’IDB sul lastrico? A far sì che le procedure di rimborso abbiano successo? La risposta è una sola: il lavoro della Gabanelli era ben fatto, le denunce delle associazioni erano circostanziate, i dati raccolti erano esatti, il meccanismo perverso è stato smontato efficacemente e ricostruito nei dettagli. Ecco come. Come la puntata di Report del 17 ottobre 2016 ha smascherato la truffa(citazione testuale del video) Prova che... Qui sta l’equivoco. Gli istituti bancari propongono contratti di acquisto di diamanti che sono in realtà sottoscritti da intermediari. L’acquirente invece è convinto di realizzare un investimento in titoli garantiti dalle banche. Il gioco delle tre carte. DPI non è l’Intesa SanPaolo. (citazione testuale del video) Prova che... Il contratto è una semplice vendita. Non è il diamante una commodity, un bene negoziato con titoli o una qualunque forma di investimento finanziario. La rivenduta è soggetta a un decremento di valore, la perdita dell’IVA, ed è comunque un semplice mandato a trovare un compratore, se lo si troverà e quando lo si troverà. Con ampi margini discrezionali e nessun obbligo per l’intermediatore. (citazione testuale del video) Prova che... La colonna portante su cui si fonda l’inganno è un’inserzione a pagamento che per anni gli intermediatori hanno acquistato su un quotidiano finanziario prestigioso ed autorevole. Le banche hanno spacciato questa pubblicità per un listino di borsa. Il dietrofront precipitoso del Sole 24 Ore Il Sole 24 Ore il 30 settembre 2017 offre un circostanziato resoconto a firma Nicola Borzì. L’effetto Gabanelli ormai si fa sentire. Il giornalista stima in 800 milioni di euro il giro d’affari dei diamanti spacciati come investimento bancario nel 2015 e nel 2016. Intermarket Diamond Business (Idb) e Diamond Private Investment (Dpi), i due principali broker controllano il 70% del giro d’affari nazionale. Nel pezzo si elaborano i dati dei bilanci di questi intermediari e delle agenzie che lucrano sulle pratiche opache di vendita. E si deduce giustamente che i cospicui utili provano che le operazioni sono fuori dai prezzi di mercato. L’andamento dei prezzi dei diamanti viene opportunamente misurato paragonando il listino Rapaport a quelli fasulli spacciati da IDB e DPI. I grafici confermano la truffa, solo che quei listini ingannevoli li aveva pubblicati proprio il Sole, senza mai domandarsi se quella pubblicità in effetti favoriva la truffa. Se alla data dell’articolo si fosse digitato su Google: “Il Sole 24 ore diamanti da investimento” sarebbe comparso un pezzo del maggio 2016, assai più compiacente verso le agenzie poi poste sotto i riflettori della Procura e della Consob. Un pezzo dal titolo “Se il piccolo risparmiatore compra diamanti invece dei bond”. In esso si strizzava, in tempi non sospetti, un occhio complice a favore dell’atteggiamento di attenzione che si voleva stimolare tra i risparmiatori verso i diamanti, descritti quali “investimenti” alternativi. Il ritorno della Gabanelli su Dataroom del Corriere. Questa volta si parla di diamanti sintetici Il 18 luglio 2018 il Corriere della Sera pubblica nella sua rubrica Dataroom un pezzo di Milena Gabanelli che ha per titolo: “Diamanti sintetici: irriconoscibili a occhio nudo, nascono in laboratorio in una settimana”. La giornalista questa volta esplora il tema della produzione e della commercializzazione delle gemme realizzate in laboratorio. Anche questa volta gli addetti ai lavori si sentono ovviamente coinvolti. Torna sui diamanti, allora c’è ancora qualcosa di grosso? No, niente di che. Gabanelli rende conto del progresso tecnico e dell’incremento delle vendite di gemme sintetiche. Si pone il confronto tra diamanti naturali e diamanti ottenuti in laboratorio e si espongono le ragioni che assegnerebbero, secondo la Gabanelli, un bonus di eticità a favore dei sintetici. Infine si riconosce che l’eventuale ipotetico sorpasso del materiale sintetico (in valore, avverrà mai?) a danno delle attività estrattive provocherebbe un grave danno ai paesi africani produttori, spesso con economie dipendenti dalla risorsa. Suggerimento di chiusura, spostare la manifattura delle gemme sintetiche in paesi quali il Congo. Perché per le materie preziose non si ricorre al parere degli esperti? Molti gioiellieri questa volta hanno storto la bocca. Non che il Corriere abbia pubblicato un pezzo privo di fondamento. Molti dati sono affidabili. È che non ci si riconosce, si stenta a tenere il filo, si perde il polso della situazione, il vero stato del mercato, il sentire degli operatori e dei consumatori. Nessun elemento è sballato, eppure persiste una nota stonata che accompagna il lettore per l’intero articolo. Ecco alcuni spunti. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Un raffronto energetico scientificamente attendibile riporta che nel 2011 Apollo Diamonds necessitava di circa 28 kilowatt/ora (kWh) per carato per produrre sintetici da tre a sette carati. La miniera Argyle usa mediamente 7,5 kilowatt/ora (kWh) per carato, de Beers 80,3 kWh ma conteggia le attività sottomarine. Lo sfruttamento minerario dei diamanti è operato da grossi gruppi che hanno da tempo intrapreso iniziative di riduzione dell’impatto ambientale. Alle strutture pionieristiche delle gallerie sudafricane si sono sostituiti investimenti minerari con voluminosi dossier ambientali. Un esempio tra tutti, il Canada. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Le critiche, anche legittime, allo schema di Kimberley abbondano. Ma il progresso etico nell’ultimo ventennio è stato prodigioso. Ma cosa sarebbe l’industria dei diamanti senza questa voluntary law transnazionale? Altre materie prime strategiche sfuggono ad ogni controllo sistematico. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: L’uso del termine “brillanti” prova che l’inchiesta non ha consultato specialisti. La contrazione dei diamanti grezzi estratti è conseguenza della riprogrammazione dei siti estrattivi dopo la crisi. In realtà gli investimenti sono ripresi in modo consistente. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Solo negli Stati Uniti si sono costituiti gruppi strutturati capaci di offrire quantità significative di diamanti sintetici di grandi dimensioni soprattutto in rete. Non ci sono dati scientifici che possano misurare le reali intenzioni etiche degli acquirenti. In Francia si è partiti da poco e con numeri ancora poco significativi. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Carati “ruvidi” coltivati è un’espressione che ancora una volta denota l’assenza di addetti al settore nella compilazione dell’articolo. È evidentemente una maldestra traduzione di “Lab-grown rough diamonds”. Il prezzo di 800 $ si riferisce a pietre tagliate di circa un carato in determinate qualità e non a diamanti grezzi (ruvidi). (Citazione da Dataroom) Osservazioni: A dire il vero a questo punto andrebbero citati i numerosi interventi sulla catena di custodia dei diamanti realizzati attraverso la tecnologia blockchain. Ma si dovrebbero spiegare anche le complicazioni derivare dall’estrazione artigiana e poco costosa dei giacimenti secondari. Non è vero che i diritti umani siano violati sistematicamente. Non è vero che la produzione di diamanti sintetici possa offrire contributi occupazionali pari all’estrazione. Un quadro distorto che influenza un po’ tutti. Come finire di inguaiare il Congo
Ricapitolando, dagli articoli di Milena Gabanelli si percepisce correttamente che i diamanti sono oggetti di consumo che rappresentano il grosso del valore ella gioielleria mondiale. In Italia i consumatori sono stati rapinati da una trappola truffaldina ordita da molti istituti bancari in complicità con agenti mediatori a loro funzionali. Ma la prosecuzione della narrazione, dopo Report, non è articolata né ben documentata. L’avvento sul mercato dei diamanti sintetici infatti non può considerarsi il canto del cigno dell’estrazione di quelli naturali. Gli investimenti minerari sono diminuiti nel decennio scorso, è vero. Ma per la naturale riconversione degli impianti dopo i cicli produttivi. A ciò si deve aggiungere l’incidenza della crisi finanziaria generale. Il probabile incremento del consumo dei prodotti di laboratorio avverrà sicuramente per quantità ma difficilmente eroderà in valore la richiesta di diamanti naturali. Secondo lo specialista Martin Rapaport i costi sempre più contenuti dei sintetici deprimeranno lo sforzo tentato sinora di assestarsi su quotazioni vicine ai naturali. De Beers ce lo conferma: entra per abbassare i prezzi dei diamanti da laboratorio e creare una categoria commerciale nuova e differenziata. Si farà arbitro e garante di questa differenziazione. Le pretese di maggior eticità dei diamanti sintetici sono indimostrate. Studi scientifici provano che i costi energetici sono simili. E non è possibile liquidare le imprese diamantifere come nemiche dell’ambiente. Il Canada è un esempio di grande attenzione agli ecosistemi dei Territori del Nord. Le grandi imprese guidate da De Beers e Alrosa possono essere prese a modello da tanti gruppi estrattivi impegnati con altre materie prime. Le falle del Kimberley Process si conoscono bene e consistono, tra l’altro, nella porosità dei confini. Ma nell’insieme negli ultimi due decenni i rischi di abusi e finanziamenti di conflitti si sono ridotti di molto. Semmai resta da indagare sull’arricchimento dei gruppi, soprattutto militari, vicini alle elites politiche di molti paesi africani produttori. Ma la corruzione indotta dalla catena distributiva non pare una discriminante scrutinata con attenzione tra i vari criteri di eticità. Inoltre il resoconto del Corriere della Sera non menziona neanche di sfuggita le nuove procedure di tracciamento etico rese possibili dalla tecnologia Blockchain. Il presunto vantaggio etico dei diamanti ottenuti in laboratorio si aggiunge alle stime dell’innegabile escalation della loro produzione e determinano un pregiudizio ed uno sbilanciamento. A leggere, pare che il sintetico, più economico ed ugualmente bello, poiché sarà abbondante ed etico, fagociterà senza appello il mercato dei diamanti naturali. Alla nostra Milena questa prospettiva alla fin fine dispiace. Togliamogli pure i diamanti naturali e paesi come il Congo affogheranno. La soluzione le viene naturale, sulle indicazioni un po’ visionarie di alcune ONG. Portiamo allora la produzione di diamanti sintetici in Congo. Così il Congo perderà una risorsa sicuramente preziosa per ottenerne una che, si presume, sarà tra non molto, simile agli zirconi cubici o la moissanite. Non un’idea brillante. |
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Settembre 2019
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