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Vendiamo oggetti belli, ok. Ma per favore non dite che vendiamo emozioni

13/3/2018

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Totale imponibile della mia voglia di vivere €1000, più IVA 22%. Se io mi mettessi veramente a vendere le mie emozioni per prima cosa dovrei ipotizzare qualcuno che desideri comprarle. E davvero non so se è più grottesco il fatto che qualcuno le compri o l’idea di mettersele a vendere. Altra cosa è dire che posso vendere cose tenendo ben in considerazione quanto conti l’emotività mia e di quelli cui mi rivolgo.
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Io vendo pietre. Perché da un po’ tutti mi dicono che la gente come me vende o dovrebbe vendere emozioni?

 
Le emozioni, le illusioni, le speranze, i rimpianti, le ansie non sono cose che si vendono. Non saprei come vendere ‘sta roba. Ma attenti, quando gli slogan ispirano le omelie e i sermoni diventano litanie vale la pena di far ispezionare le chiese. Vuoi vedere che, sotto sotto, quello che mi stanno dicendo è che sto sbagliando qualcosa?
 
Un grande megafono agitato da un moderno Totò stile Votantonio ci impartisce queste belle strilla del marketing del terzo millennio. “Voi non vendete più come prima perché i clienti che entrano in gioielleria vogliono qualcosa in più di quello che già trovano navigando nel lussureggiante oceano del web. Voi non vendete più come una volta e la colpa è vostra perché non vi siete ancora accorti che dovete vendere emozioni”. Guarda un po’ che ingenuo, io pensavo ancora che chi è in affanno nel vendere piuttosto dovrebbe ragionare prima di tutto sul semplice fatto che non è stato bravo, ha aperto tardi il negozio o non lo ha pulito o non ha le cose giuste da vendere.
 
Facciamo che che il problema se lo pongano un campesino peruviano o un muscoloso bracciante nubiano. Immaginiamoli mentre tornano mesti nei propri miseri villaggi perché non hanno accocchiato (ricavato, portato a termine) nulla e la loro giornata volge al termine. Sono delusi e pronti a farla finita precipitandosi l’uno nei vertiginosi precipizi andini e l’altro bruciato dal sole mentre vaga smarrito tra le dune. Finale a sorpresa e con lieto fine: il contadino peruviano e quello egiziano ora sorridono e non guardano più sconsolati il proprio cesto di ortaggi invenduti. Hanno avuto un’intuizione di marketing. Adesso sanno cosa fare. Non importa più che sono arrivati tardi, che il sole abbia fatto marcire le rape, che tutti siano già andati a comprare le zucchine del supermercato. Ecco la soluzione. Venderanno emozioni, non più cavolfiori.
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È vero, vorremmo vendere in un’atmosfera più morbida e favorevole
 
Mi si obietterà: “Allora le emozioni non contano?”. Contano una cifra, altroché. Gli esseri umani si caratterizzano per il fatto di possedere una sfera emozionale più arcaica, più forte, più importante di quella razionale. Il commercio e la manifattura sono due delle tante attività umane portate avanti dalla parte razionale. Ci aiuta la logica, se vogliamo ci aiuta la letteratura, ci aiuta la ragioneria. Se vendiamo e compriamo oggetti o servizi finiti, variabilmente durevoli, lo facciamo innanzitutto in una dimensione di razionalità.
 
​In questo ambito siamo guidati, influenzati, orientati anche dalle nostre emozioni. Ma poiché l’emotività esiste solo come risposta soggettiva non possiamo vendere emozioni, né le nostre né quelle degli autori dei gioielli. Non esistono sentimenti impacchettabili. Quello che vorremmo veramente fare è una cosa diversa. Vorremmo tentare una vendita, una cessione di beni che ci premi con utili, che sia capace di concretizzarsi attraverso la sollecitazione delle componenti emotive del compratore. Vorremmo favorire il processo di creazione di emozioni. Vorremmo il soccorso ed il calore di un’atmosfera più morbida in cui ragionare empaticamente e con sentimento.
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Per vendere bene possiamo anche tacere

 
Se vogliamo vendere pietre (campesino stai attento, questo vale pure per le tue zucche) desideriamo null’altro che attivare delle relazioni razionali con altri esseri umani. In questo ambito ricorriamo ad un tipo di comunicazione che si giovi anche degli aspetti più trascendenti delle cose e che ci consenta di mettere in campo, in qualità di nostri alleati, sensazioni ed istinti. Ti illustro i vantaggi con la logica dei numeri e ti trasmetto pure - sempre razionalmente - un invito solleticando una tua reazione estetica ed emotiva.
 
Posso argomentare, ragionare, far riflettere per vendere una cosa (non un’emozione). Ma quando porto sulla scrivania una spessartina arancio, una tanzanite o un granato purple per venderle posso anche semplicemente tacere. Dall’altro lato della scrivania un cliente (essere umano senziente) può anche star zitto. A lavorare ci penseranno le onde elettromagnetiche color mandarino, blu o fucsia che si scontreranno con i nostri recettori neurologici. Che bello, non devo fare nulla.
 
Ed al mio cliente potrà accadere di tutto, anche qualcosa di non lontano di quello che è accaduto a me quando fu io a giocare la parte del compratore. Gli si formeranno ricordi, si riaffacceranno nella sua mente umidità novembrine, versi di Saba o di Paul Eluard, note dei Pink Floyd. Solo Dio lo sa cosa formeranno le sue emozioni. Ma quella è roba sua, non gli sto passando il mio timbro cromatico ed il mio pacchetto di associazioni psichiche. Allora che cosa stiamo facendo?

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Il grande fantasma di noi stessi che non riusciamo a vendere. La Visa non passa, ha mica una Emotional Card?

Stiamo solo tentando di vendere un oggetto. E siamo così impauriti dall’eventualità che non si venda che vorremmo agire direttamente nella mente e nel cuore del potenziale cliente. A ben vedere - tornando all’esempio del tentativo di vendita silenziosa della spessartina - lì c’è uno schema antico ma ancora utile ed universale poiché non si deve adattare alle stagionalità.

Ora, però, il fatto che si viva un momento storico di crisi generale, e di crisi di vendita di gioielli in particolare, pare al contrario autorizzarci, come estrema risorsa, a mercificare i sentimenti mettendoli al servizio del marketing. Quello che dovremmo fare invece sarebbe di studiare seriamente i cambiamenti sociali che modificano l’orientamento agli acquisti. Storicamente in Italia s’è comprata, ad esempio, fino a qualche decennio fa tanta oreficeria per un puro calcolo, caro alle famiglie ed ai propri riti, teso a patrimonializzare i regali in occasione delle celebrazioni. Si sono venduti gioielli senza per forza dannarsi per suscitare forti emozioni.

Nel vendere misceliamo da millenni l’esperienza razionale con quella emotiva. Io, venditore (essere umano senziente) devo starmene buono ed accontentarmi di aver creato un incontro semplice ma ben strutturato. Soggetto A che guarda una spessartina che è contemporaneamente guardata da un soggetto B. I soggetti A e B comunicano attraverso differenti risposte, al contempo razionali ed emotive, suscitate dalla stessa spessartina.

Quando il mantra del vendere emozioni risuona nei riti di marketing io percepisco le note di una triste resa consolatoria al demone dei modelli di consumo più scriteriati, quelli che che nelle stagionalità negative non trovano di meglio che ridurre l’emotività ad un bene di scambio. La Visa non passa, ha mica una Emotional Card? 

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