Ecco un tasto nevralgico. Orafi, ora ci sono e ora non ci sono Ci sono tanti orafi disoccupati o male occupati. Ma allora perché, nello stesso tempo, leggiamo che grandi aziende di gioielleria italiana lamentano carenza di personale? Il 23 aprile la Stampa ha pubblicato un articolo intitolato “Non ci sono più orafi. L’industria del gioiello in cerca di manodopera”. Mi sono affrettato a segnalare sulla mia pagina Facebook l’approfondimento firmato da Michela Tamburrino: la stampa nazionale ci osserva. Nell’articolo sono esposte fondamentalmente le esperienze di due grandi marchi, stilisticamente italiani ma francesi di proprietà, Pomellato e Bulgari. La carenza di personale tecnicamente preparato li ha convinti a crearsi dei percorsi di formazione in collaborazione con altri soggetti per dotarsi in casa di figure artigianali qualificate. Così si spiega nell’articolo Sabina Belli, amministratore delegato di Pomellato: “Sta nella nostra tradizione avere una forma di affiancamento che tramandi l’orgoglio per ciò che si fa e che non può essere rimpiazzato. Un sistema che a cascata prevede un centro studi, un polo di competenza per le gemme, chi fa i prototipi in tre dimensioni che poi passano in fabbrica... La salvaguardia del patrimonio storico dell’oreficeria è in cima al lavoro filosofico-culturale di Pomellato. Ma serve uno sforzo triangolare tra i marchi, le regioni, i poteri pubblici ai più alti livelli, il ministero dei Beni Culturali perché parliamo di mestieri che permettono di esportare il lusso di cui siamo ancora i best in class”. A queste parole fanno eco quelle di Jean-Christophe Babin, Ad di Bulgari: “Siamo orgogliosi di aver ideato la fondazione Mani Intelligenti con Bulgari socio fondatore e sedici aziende valenzane partner, allo scopo di attrarre giovani della regione Piemonte per lo studio di questo mestiere d’eccellenza Le reazioni al mio post su Facebook mi danno da pensare Il mio post, che non faceva altro che mettere a disposizione il pezzo della Stampa, s’è fatto presto bollente. I tanti commenti, alquanto diversificati, mi hanno indotto a qualche breve considerazione. Ed alla fine emerge una proposta. Vado in ordine. 1. Orafi disoccupati in Italia e carenza di personale a Valenza. Qualcosa nel conto non torna. I commenti al post mettono in luce la convinzione che il percorso con i grandi brand sia complicato e non sempre soddisfacente economicamente, anche considerando che in tanti casi bisognerebbe comunque stabilirsi lontano dai luoghi di residenza. Conosco personale che s’è spostato in Piemonte con soddisfazione. Conosco qualcuno che ha mollato per altri lidi più gratificanti. Young people wanted. Pare che i più “stagionati” non interessino. 2. Il Made in Italy torna a correre. Vero, ma solo per i grandi gruppi strutturati. Pomellato e Bulgari continuano a fare cose molto belle. Fa piacere leggere che la creatività italiana è ancora molto apprezzata nel mondo. Ma lo fa solo dall’alto di realtà con grandi fatturati. Il polo milanese/valenzano concentra quasi tutto il lusso. La distanza tra superbrand, dinamizzati dal turbo dell’internazionalizzazione, e l’impresa media italiana fatta di due o tre persone si accentua. È siderale. 3. Declino della formazione. L’Ad di Pomellato rileva che molte scuole di formazione orafa hanno chiuso i battenti. Poche iscrizioni. Propone un’intesa con enti pubblici. Ma abbiamo in Italia percorsi formativi chiari, intermedi ed universitari che valorizzino l’arte della gioielleria in corrispondenza dei poli orafi regionali? Abbiamo una scuola libera che veicoli il grande deposito di “cultura” dell’arte? O piuttosto abbiamo una specie di piatto avviamento professionale? La scuola è integrata da stage produttivi in concrete realtà lavorative? Si può fare di meglio. 4. Declino della bottega tradizionale e ricerca di figure specialistiche. Molti lettori del post lamentano l’interruzione del ruolo tradizionale della formazione in bottega. Piuttosto che creare artigiani votati alla creatività pare che vengano ricercate figure da destinare a mansioni altamente specializzate. L’orafo non è cool e gode di scarsa considerazione sociale. Ancora dalla Stampa: “Belli (l’Ad di Pomellato, n.d.a.) vede genitori poco lungimiranti che preferiscono sapere un figlio insoddisfatto dietro una scrivania anziché felicemente orafo, ebanista, conciatore”. Se i cuochi sono diventati Master Chef perché gli orafi non possono diventare Maestri Artigiani? In sintesi estrema. Il destino delle imprese del gioiello - ci suggerisce la Stampa - è tracciato dai grandi gruppi del lusso dove la formazione forma l’incastonatore che incastona, il designer che disegna, i fonditori che fondono etc. Non è un più un mondo per outsiders, creativi magari geniali, entusiasti, innovativi. Ma piccoli in un mondo per grandi. Eppure nei commenti al post si scorge anche una reazione d’orgoglio artigiano. Perché abiurare all’unicità dell’oggetto orafo, alla sua irripetibilità, perché decretare l’estinzione del piccolo o medio laboratorio con pochi addetti? Siamo sicuri che assisteremo ad un processo che consoliderà gruppi sempre più grandi e globali? E che inesorabilmente condannerà a scomparire chi ha piccole dimensioni? Nella nostra città, quindi nel nostro “universo culturale”, l’orafo apriva la saracinesca a fianco dell’antiquario, dell’ebanista, del macellaio, del sarto, del vinaio etc. Stentiamo a credere che questa nostra città (città ha la radice linguistica di “civiltà”) si trasformi in una specie di supermercato indistinto che spaccia oggetti di cui non sappiamo nulla, che non abbiamo visto produrre. I giovani che si misuravano col proprio futuro imparando un mestiere d’arte ora piuttosto si affidano inermi al vaticinio circense di centri per scommesse che sostituiscono, inesorabili e beffardi, i laboratori e le botteghe. I commenti al mio post hanno allora indicato una sfida. Perché non fare un talent per i creatori di gioielli? Guardate cosa è successo con la cucina in TV. Oggi potete dividere gli italiani (ed il mondo) in prima e dopo Masterchef. Il format non ha solo lanciato dei grandi virtuosi dei fornelli. Ha fatto molto di più: ha alfabetizzato milioni di persone ai fondamentali dell’arte culinaria, ha affinato palati, riscoperto ricette e territori. Ha rinfocolato una passione che in Italia non s’era estinta. Se adesso mangiate migliori carbonare, se la pizza è infinitamente migliore lo dovete a Masterchef. Alla stessa maniera un talent sulla creatività artigiana risveglierebbe quel gusto sopito ma non estinto che persiste nella cultura italiana (ed europea) di vedere armonia a partire dalle piccole cose, se fatte con il fuoco sacro di uno sfizio, di un amore verso l’unicità, l’estrosità, la maestria. Un Talent orafo sarebbe un grande successo per la spettacolarità del disegno, la forgia delle forme e delle leghe, la magia della fusione, la sinfonia degli accostamenti dei colori delle gemme, la geometria dell’incastonatura. Se i grandi brand lo finanziassero acquisirebbero meriti sociali, perché concorrerebbero a ripristinare il grande senso della bottega diffusa, un sano presidio culturale tipicamente italiano con secoli di storia. Sono convinto che si creerebbero molti posti di lavoro. L’attenzione dei media infatti rimetterebbe in funzione il vero motore trainante dello sviluppo, il pubblico. E la gente, spente le TV, ritroverebbe sotto casa le peculiarità smarrite, le unicità, le prerogative artistiche. Mille modi per fare il traforo, come mille modi per cucinare l’abbacchio. Le grandi firme che fanno i trend del gioiello, potrebbero inoltre beneficiare di artigiani già formati da inserire rapidamente nelle strutture ora vuote. In fondo cos’è la RSI, la responsabilità sociale d’impresa, se non riequilibrare con iniziative giudiziose ed utili a tutta la comunità le ingiustizie e le storture che le attività economiche inevitabilmente, e anche senza volerlo, infliggono alla società? Senza gli uomini che li pensano, i prodotti non servono a niente. |
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Settembre 2019
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