La convocazione Una delle più entusiasmanti convocazioni della mia vita avvenne nella primavera del 2008. Fui nientedimeno interpellato per redigere articoli sul mondo delle pietre. Chiunque mi conosca nella mia principale professione sa anche della mia passione nascosta per la scrittura. Solo che a me era toccato un destino tiranno. Quando, appena più di un ragazzo, cominciai a aprire le carpette di rubini e smeraldi, avevo infatti dovuto inevitabilmente mettere i tappi sulle biro, dimenticare il ticchettio della macchina da scrivere e lasciare tastiera e stampante al dominio esclusivo ed inesorabile della compilazione delle fatture. Poco tempo per altro. Leggere, sì. Ma dovetti dimenticare di scrivere. E dunque l’invito di Giovanni Micera, non tanto a me, ma allo scrittore dormiente in me, perché considerasse di collaborare col suo nascente Magazine, prima mi lusingò, poi mi inquietò. Ne avevo le capacità? Avrei avuto la necessaria autorevolezza? Comunque il Paolo dormiente (uno sconsiderato avventuriero/sognatore) accettò di slancio. Ma mi pose delle condizioni. Avrei dovuto svegliarlo per procurarmi le armi e le munizioni. Ricorsi innanzitutto alla collaborazione di uno specialista tecnicamente inappuntabile, il grande Alberto Scarani. Per mia buona sorte accettò l’inaccettabile, scrivere cioè a quattro mani. Non lo si può fare se non si ha un profondo rispetto reciproco. Ne sarebbe conseguita una meravigliosa sintonia di penna e di intenti, che fortuna! Da lì sarebbero nate idee eccellenti, perfettamente funzionanti ancora oggi in un sodalizio saettante di progetti. Il secondo strumento che mi convinsi ad usare è dato a tutti, non era nulla di nuovo. È quello che ha improntato tutta la mia vita, non solo professionale. Studio e studio continuo. Se serve dobbiamo metterci a qualunque età, senza complessi e vergogna, sui banchi di scuola. E se non si capisce, provare e riprovare. Quando venne fuori Preziosa Magazine, per la sezione gemmologica bisognava trovare la giusta strada. La Rivista aveva già uno stile ben marcato che prevedeva contenuti di livello in un frame moderno, tutto visual ed eleganza. Il Direttore risolse tutto nella maniera più pratica: lasciò liberi tutti, dormienti e svegli. E ce la cavammo. Una notevole attestazione di stima per un dilettante come me, ma anche un investimento sulla mia testardaggine, sulla mia voglia di riuscire. Come parlare di gemme senza scocciare? Parte Preziosa Ci guardammo attorno. L’approccio italiano al giornalismo gemmologico si poteva riassumere in ciò che io chiamo il modello Grande Bellezza. Eccolo qui in due parole. Fulminante Metafora per il titolo (tipo: Smeraldo, paradiso verde; Zaffiro, l’impero del blu etc.) e poi giù con proprietà, etimologia, pezzi famosi, giacimenti, leggende, credenze, etc. Insomma, un approccio apologetico o, se volete, agiografico. Essendo le gemme come doni divini immutabili, il gemmologo non ha che da officiare il rito di celebrazione della loro santa bellezza. Niente di male (la gemmologia del trionfo delle classi medie, dall’epoca vittoriana ad ieri, questo doveva fare). Ma neanche niente di che. Perché la Grande Bellezza delle Gemme è obsoleta? Perché pretende di continuare ad elevare al grado di notizia delle semplici annotazioni rassicuranti. Diamante significa indomabile, i Rubini migliori non sono riscaldati, gli zaffiri migliori ma introvabili vengono dal Kashmir etc. Provate a superare il terzo paragrafo. Le vere notizie non dovrebbero essere quelle che escono dal solco della normalità? Questa convinzione ci fece puntare sui trattamenti, ossia le forme devianti dall’ordinaria grande bellezza. E così Preziosa nel gennaio 2009 batte un po’ tutti sul tempo ed offre un documentato reportage sul rubino con infiltrazioni di sostanze vetrose. Era un lavoro non solo di allerta (truffe già venivano segnalate, ma molte furono evitate proprio grazie all’attenzione che ne derivò), ma anche di servizio. Alberto sottopose i miei campioni ad una specie di crash test, imparavamo da Quattroruote più che dall’editoria specializzata. Cosa succede al rubino quando lo trattiamo con sbiancamento, o con ultrasuoni, o con detergenti? In sostanza, nella vita di tutti i giorni della massaia o della manager, che fine fa un corindone riempito di agenti estranei quali il vetro ed il piombo? Una misera fine, in barba alla speculazione dei lestofanti che lo avevano venduto a 1000 euro anziché a quegli onesti 50/100 euro dell’effettivo valore. Non sta a me prendere meriti, sicuramente molto meglio si sarà fatto altrove. Ma una cosa la possiamo rivendicare, la tempestività del pezzo. Con lo stesso spirito di servizio Preziosa Magazine ha veicolato lavori di compilazione sulla diffusione profonda dei corindoni, sulla diffusione superficiale, sul tema del riscaldamento, sulle tormaline, sugli spinelli, sui granati, sulla questione dell’origine geografica, sulla macrofotografia delle inclusioni. Tutti gli articoli finivano sempre con interrogarsi quanto quelle gemme valessero effettivamente. Ma imparai ancora di più. E cioè che la divulgazione gemmologica periodica non può e non deve inseguire ad ogni costo i colpi ad effetto. Parliamoci chiaro, gli scoop sono rari. Quante volte si procurano allarmi solo per calamitare un po’ di attenzione sui propri canali? Molte. E quante volte capita proprio a te o i tuoi amici di identificare nuove manipolazioni di abbellimento? Mai. Non ci stupiamo, alcune notizie sono create per ottenere breaking news a buon mercato. Ecco perché ho pensato che potesse funzionare bene anche un’onesta focalizzazione su alcuni argomenti controversi. Quanti in Italia avevano afferrato le nuove frontiere dell’aggiunta di berillio nei corindoni? Cosa rispondere quando ci chiedono se è possibile attestare la provenienza geografica degli zaffiri e degli smeraldi? Fare il punto della letteratura scientifica, render conto dei casi vivi riscontrati sul mercato, verificare le quotazioni, illustrare i criteri di identificazione. Questo non era un colpo, certo. Ma credo che abbia funzionato bene lo stesso come informazione. Peccato solo che in digitale le foto siano sparite. Io, almeno dal mio iPad non le vedo più. Quei lavori sono ancora vivi. Te la senti di tenere un blog sulle pietre? Credo me lo disse al telefono. “Paolo, raddoppiamo. Te la senti di tenere anche un blog? Ho già il titolo: “Parole di pietra”. Questo fa un Direttore, vede cose che gli altri non vedono. Il fatto però era che non lo vedevo neanche io. Ok, aveva varato una serie di fili diretti con i lettori. Ma vi scrivevano giornalisti esperti e titolati quali Maria Rosaria Petito, compagna di Giovanni Micera, Annalisa Fontana, il compianto Gianni Roggini. La comunicazione intorno al mondo orafo era il loro pane quotidiano. Io da dove avrei potuto iniziare? Carta bianca. Nei due significati. Nel senso della solita massima fiducia in quella che sarebbe stata la mia impostazione, da parte di Gianni Micera. E fin qui OK. Ma anche nel senso di carta vuota, carta che stracciavo, appallottolavo, carta che ricaricavo e che rimaneva intatta. Gli aspetti tecnici erano già negli articoli, che dire d’altro delle pietre in un blog? Mi infilai in rete, che si faceva in America? No, non era lontano che dovevo cercare. Una notte capii. Il Direttore mi aveva invitato a tirare fuori le mie avventure, il mio punto di vista soggettivo. Esattamente come si tirano fuori le gemme, come si mettono assieme, come si sgrossano, come si perdono. Chi ci lavora non può non estrarne storie. Sembrano insignificanti, proviamo. Forse non lo sono. La narrazione sarà personale, va bene. Scagliamo le pietre nello stagno e vediamo cosa succede. Il primo blog non lo dimenticherò mai. Mi venne come al solito come in sogno nei miei venti minuti di jogging. Era la storia di due opali che comprai. Uno era un fossile che acquistai per caso e che persi per incuria. Un bel pezzo, una conchiglia da almeno tremila euro. L’altro era poco più di un sasso che divenne, con mia sorpresa, una vela nel gioiello di un cliente. Scrissi di getto. Rilessi. Mi meravigliai. Era un piccolo racconto, c’erano ritratti, ambienti. Lo avevo scritto io? Anche in questo caso non pretendo di giudicare. Sarà pure una pagina modesta. Ma m’era piaciuto un sacco scriverla! Dietro il gioco di colore degli opali, c’era la vita. Ci trovai del movimento. Si percepiva un viaggio, si intravedevano le emozioni, la voglia, il buio, un senso cupo ma anche di entusiasmo. Non importa il valore di quello che stava scritto. Importa che avevo trovato una strada, la mia strada narrativa o se vogliamo il Logos. Quel filo cioè che rivitalizza le pietre, rigenera i legami atomici dal rigor mortis dei puri dati quantitativi e le riannoda al mondo delle relazioni umane. Il logos delle gemme non potrà mai fare a meno delle emozioni Rilessi mille volte. Fino ad odiare quel mio primo blog. Era troppo? Era troppo poco? Partimmo. Col tempo Giovanni mi spingeva a ridurre i paragrafi. Grande lezione, togliere ma senza diminuire le faccette, il brusio dei negozi o il rumore delle botteghe, il sapore orafo. Va beh, è andata. Ora sono passati otto anni. Preziosa Magazine è leader. Il Direttore ha fatto ancora di più. Ha lanciato un proprio canale video, è in TV, è nel ramo bijou, promuove l’occupazione, ha fatto inchieste eccellenti. I tempi della comunicazione cambiano in fretta e i blog su Preziosa non ci sono più. E allora posso rileggerli senza condizionamenti, i miei e quegli degli altri. La verità? Per me restano interessanti. Ma la cosa più bella di tutto è che, piaccia o no lo stile, risfogliandoli sullo sfondo si vedono i cambiamenti sociali. Si leggono le evoluzioni della tecnica, il passaggio di cultura dalla bottega all’impresa, il prosciugarsi ed il rinvigorirsi dell’ispirazione, il conformismo, la piattezza e l’audacia dei tagli, la riluttanza o la propensione all’innovazione, l’emergere di player minerari monopolisti, la decadenza e la ristrutturazione dei modelli fieristici, il precariato dei giovani orafi. Tutti questi temi mi sembrano ancora dannatamente attuali. Sono grato al Direttore Micera ed a tutto il gruppo del Magazine. Preziosa è diventato un polo informativo catalizzatore di quello che oggi si chiama fashion. Ha ridefinito il concetto di gioiello e ne ha innovato l’immagine. E tutto questo nasce a Napoli, possiamo esserne orgogliosi? Dopo il primo, possano arriderle ancora altri decenni di crescita! Quello che resta a me è quella spinta iniziale, quell’impulso a vedere il mondo dietro le pietre, i giochi di potere dietro la facciata, la profondità investigativa che non può non essere ricerca chimica e fisica sistematica col conforto delle scienze sociali. Le parole di pietra, come le ha definite il Direttore, sono i sassi che il rigore dell’approfondimento lancia nel conformismo piatto degli stagni, il Sunset Boulevard della Grande Bellezza, il dormiente risvegliato che poggia uno sguardo sereno sulla meraviglia. L'opale perso e l'opale ritrovato di Paolo Minieri (testo integrale da Preziosa Magazine) Ogni volta che suono il campanello del mio tagliatore cinese di opale credo che mi rispondano che è morto. Mi sono fissato, m’è successo anche tre settimane fa. “Ecco – penso – ora viene la segretaria e mi dice della disgrazia”. Poi lo scorgo: si tratta d’un omino d’età imprecisata, ma certo non giovane, un po’ curvo, pallido e sempre silenzioso. Non conosce l’inglese, mi sillaba in cantonese e io rispondo in italiano. Le sue movenze lente m’appaiono ispirate ad una solenne e tutta orientale modalità di risparmio energetico. Due anni fa, poi, era così debole e magro a causa del clima a gennaio insolitamente freddo che mi andai convincendo (sono le convinzioni del viaggiatore d’affari causate un po’ dall’istinto ingannato dal jet-lag e un po’ dalla solitudine) che quello sarebbe stato l’ultimo opale che mi vendeva. Feci dunque il mio lavoro in una rispettosa e immaginaria atmosfera sepolcrale; mentre le gemme mi scivolavano dalle mani e le migliori si depositavano come per incanto al mio lato, vibravano meste le note cupe d’un requiem d’addio nel buio del laboratorio. Ma in questa scena malinconica a suggestionarmi si mise pure l’opale. Il suo gioco di colore mi rinfocolò in un attimo la fiamma della gioia di vivere (ma in realtà il tagliatore cinese aveva solo la tosse): ad ogni inclinazione della mia mano come non mai sfavillavano i suoi infiniti arcobaleni, tutti astri luminosi nella penombra cinese. Solo il poeta napoletano Raffaele Viviani, allo stato delle mie conoscenze, rende, in versi però ispirati alla luce del sole che illumina la donna amata, il gioco di colore dell’opale (“vedarrissi migliare ‘e culure, mo’ russe, mo’ verdi, mò lilla, mo’ gialle”). Venne servito il tè, poi passammo a tagliare e lucidare. Sempre ritocco i pezzi per fare coppie, parure, forme speciali. In effetti è qui che viene il divertente: manipolare le gemme a modo proprio, adattarle ai mercati di riferimento, ridisegnarle. Il vecchio non mi contrariava, anche quando le mie idee gli sembravano pura follia, quando magari violavo, a vantaggio delle forme, le regole millenarie della massima resa del grezzo. Era come se il taglio della gemma lo resuscitasse ai miei occhi. Volli tuttavia comprare (a futura memoria) due pezzi strani senza praticare modifiche e ritagli. Una suggestiva spirale opalizzata e un bizzarro pezzo storto, vagamente triangolare. Li aveva visti così e così il vecchio saggio li aveva lasciati, una lucidatina e via. Del resto l’opale ha una struttura amorfa e si presenta spesso in forme grezze insolite. Visto che nella mia allucinata visione il tagliatore sarebbe presto passato a miglior vita, tanto valeva accaparrarsi qualcosa di veramente suo. Spiego queste cose al solo scopo di testimoniare che questi due pezzi non li avrei acquisiti in una razionale seduta di lavoro, li comprai invece sotto gli influssi di un fenomeno di autosuggestione. Vi sembrerà strano ma gli italiani non amano gli opali storti o insoliti. La caratteristica spirale si rivelò essere un raro fossile. Facemmo giusto in tempo a fotografarlo che – destino atroce e me tapino – andò perduta durante le pulizie del mio ufficio. Lasciate che io stenda un velo pietoso su tale imperdonabile disattenzione. Del pezzo storto mi dimenticai, come ci si dimentica di tante cose quando un evento luttuoso (la dipartita inaspettata di un pezzo da museo) ci accade a bruciapelo. Altre visite al laboratorio dell’opale, anche recenti, mi hanno confermato in vita l’inconsapevole tagliatore (che parti del corpo si toccheranno mai i cinesi per fare gli scongiuri?); altro opale abbiamo progettato e lavorato. Poi, circa due settimane fa, sono andato a incontrare un amico-cliente che non vedevo da tanto. Era solo un saluto. Lui era dietro la scrivania ad armeggiare con un oggetto sul disegno di una barca. “Tu non c’eri – mi dice – ma l’ho comprato al tuo stand a Vicenza”. E quello che risorgeva alla mia attenzione era l’opale storto che la fantasia del mio amico stava trasformando nella vela di una nave d’oro. Tutto l’opale geometrico che io vendo immediatamente lo dimentico presto ma l’opale storto no, aveva questa storia da raccontare. Chi opera nel ramo gioielleria ha aspettato a lungo un’inchiesta Quando si è stati spettatori di un episodio che diventa notizia di cronaca è interessante poter controllare quanto accurata o meno sia la rendicontazione che ne farà un giornalista. Ero lì, so le cose perché le ho viste. Posso verificare. Ma il rendiconto è soddisfacente? Non sempre. Motivi? Una certa sciattezza nel procurarsi le fonti, ricostruzioni nebulose dei fatti, non solo le stesse parole ma addirittura le stesse frasi, frutto di pigre e distratte operazioni copia e incolla. Questa premessa per dire cosa? Che, quando nel 2016 Milena Gabanelli, tra i pochi rimasti a fare inchieste scomode ai poteri forti, ha messo nel mirino i diamanti, noi del ramo ci siamo incollati agli schermi. Nell’attesa qualcuno era anche preoccupato. Questa volta possiamo fare noi il check, sappiamo di che si parla. Milena riuscirà mai a ricostruire la maledetta, intricata storia dei diamanti venduti a prezzi stellari, con la complicità dei poteri forti, ai poveri risparmiatori italiani? Un po’ di chiarezza avrebbe reso giustizia di soprusi che gli operatori avevano sotto gli occhi. Istituti improbabili e senza scrupoli, teste di legno del ramo bancario, hanno fatturato miliardi di euro facendo credere che i diamanti fossero dei titoli negoziabili. La truffa è andata avanti per oltre un decennio senza che qualcuno, tranne voci sporadiche tra cui la testata napoletana Preziosa Magazine e Federpreziosi, si facessero carico del dovere morale di fare il lavoro dei giornalisti. La corazzata bancaria colpita e affondata è costretta alle multe ed ai risarcimenti È andata bene. La potenza d’urto della macchina giornalistica di Report ha fatto crollare la miserevole messa in scena che permetteva la vendita di diamanti sopra i prezzi di mercato, tramite gli sportelli bancari e con tanto di listini spacciati per indici di borsa sul Sole 24 Ore. L’indisponibilità degli istituti di credito a motivare la propria colpevole complicità all’inganno s’è sgretolata come un castello di carta. Adesso, udite udite, stanno addirittura avviando i risarcimenti. Come ha fatto il giornalismo d’inchiesta a risvegliare dal torpore l’Antitrust? Come è riuscito a costringere l’Authority a comminare multe alle banche? A ridurre i truffatori dell’IDB sul lastrico? A far sì che le procedure di rimborso abbiano successo? La risposta è una sola: il lavoro della Gabanelli era ben fatto, le denunce delle associazioni erano circostanziate, i dati raccolti erano esatti, il meccanismo perverso è stato smontato efficacemente e ricostruito nei dettagli. Ecco come. Come la puntata di Report del 17 ottobre 2016 ha smascherato la truffa(citazione testuale del video) Prova che... Qui sta l’equivoco. Gli istituti bancari propongono contratti di acquisto di diamanti che sono in realtà sottoscritti da intermediari. L’acquirente invece è convinto di realizzare un investimento in titoli garantiti dalle banche. Il gioco delle tre carte. DPI non è l’Intesa SanPaolo. (citazione testuale del video) Prova che... Il contratto è una semplice vendita. Non è il diamante una commodity, un bene negoziato con titoli o una qualunque forma di investimento finanziario. La rivenduta è soggetta a un decremento di valore, la perdita dell’IVA, ed è comunque un semplice mandato a trovare un compratore, se lo si troverà e quando lo si troverà. Con ampi margini discrezionali e nessun obbligo per l’intermediatore. (citazione testuale del video) Prova che... La colonna portante su cui si fonda l’inganno è un’inserzione a pagamento che per anni gli intermediatori hanno acquistato su un quotidiano finanziario prestigioso ed autorevole. Le banche hanno spacciato questa pubblicità per un listino di borsa. Il dietrofront precipitoso del Sole 24 Ore Il Sole 24 Ore il 30 settembre 2017 offre un circostanziato resoconto a firma Nicola Borzì. L’effetto Gabanelli ormai si fa sentire. Il giornalista stima in 800 milioni di euro il giro d’affari dei diamanti spacciati come investimento bancario nel 2015 e nel 2016. Intermarket Diamond Business (Idb) e Diamond Private Investment (Dpi), i due principali broker controllano il 70% del giro d’affari nazionale. Nel pezzo si elaborano i dati dei bilanci di questi intermediari e delle agenzie che lucrano sulle pratiche opache di vendita. E si deduce giustamente che i cospicui utili provano che le operazioni sono fuori dai prezzi di mercato. L’andamento dei prezzi dei diamanti viene opportunamente misurato paragonando il listino Rapaport a quelli fasulli spacciati da IDB e DPI. I grafici confermano la truffa, solo che quei listini ingannevoli li aveva pubblicati proprio il Sole, senza mai domandarsi se quella pubblicità in effetti favoriva la truffa. Se alla data dell’articolo si fosse digitato su Google: “Il Sole 24 ore diamanti da investimento” sarebbe comparso un pezzo del maggio 2016, assai più compiacente verso le agenzie poi poste sotto i riflettori della Procura e della Consob. Un pezzo dal titolo “Se il piccolo risparmiatore compra diamanti invece dei bond”. In esso si strizzava, in tempi non sospetti, un occhio complice a favore dell’atteggiamento di attenzione che si voleva stimolare tra i risparmiatori verso i diamanti, descritti quali “investimenti” alternativi. Il ritorno della Gabanelli su Dataroom del Corriere. Questa volta si parla di diamanti sintetici Il 18 luglio 2018 il Corriere della Sera pubblica nella sua rubrica Dataroom un pezzo di Milena Gabanelli che ha per titolo: “Diamanti sintetici: irriconoscibili a occhio nudo, nascono in laboratorio in una settimana”. La giornalista questa volta esplora il tema della produzione e della commercializzazione delle gemme realizzate in laboratorio. Anche questa volta gli addetti ai lavori si sentono ovviamente coinvolti. Torna sui diamanti, allora c’è ancora qualcosa di grosso? No, niente di che. Gabanelli rende conto del progresso tecnico e dell’incremento delle vendite di gemme sintetiche. Si pone il confronto tra diamanti naturali e diamanti ottenuti in laboratorio e si espongono le ragioni che assegnerebbero, secondo la Gabanelli, un bonus di eticità a favore dei sintetici. Infine si riconosce che l’eventuale ipotetico sorpasso del materiale sintetico (in valore, avverrà mai?) a danno delle attività estrattive provocherebbe un grave danno ai paesi africani produttori, spesso con economie dipendenti dalla risorsa. Suggerimento di chiusura, spostare la manifattura delle gemme sintetiche in paesi quali il Congo. Perché per le materie preziose non si ricorre al parere degli esperti? Molti gioiellieri questa volta hanno storto la bocca. Non che il Corriere abbia pubblicato un pezzo privo di fondamento. Molti dati sono affidabili. È che non ci si riconosce, si stenta a tenere il filo, si perde il polso della situazione, il vero stato del mercato, il sentire degli operatori e dei consumatori. Nessun elemento è sballato, eppure persiste una nota stonata che accompagna il lettore per l’intero articolo. Ecco alcuni spunti. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Un raffronto energetico scientificamente attendibile riporta che nel 2011 Apollo Diamonds necessitava di circa 28 kilowatt/ora (kWh) per carato per produrre sintetici da tre a sette carati. La miniera Argyle usa mediamente 7,5 kilowatt/ora (kWh) per carato, de Beers 80,3 kWh ma conteggia le attività sottomarine. Lo sfruttamento minerario dei diamanti è operato da grossi gruppi che hanno da tempo intrapreso iniziative di riduzione dell’impatto ambientale. Alle strutture pionieristiche delle gallerie sudafricane si sono sostituiti investimenti minerari con voluminosi dossier ambientali. Un esempio tra tutti, il Canada. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Le critiche, anche legittime, allo schema di Kimberley abbondano. Ma il progresso etico nell’ultimo ventennio è stato prodigioso. Ma cosa sarebbe l’industria dei diamanti senza questa voluntary law transnazionale? Altre materie prime strategiche sfuggono ad ogni controllo sistematico. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: L’uso del termine “brillanti” prova che l’inchiesta non ha consultato specialisti. La contrazione dei diamanti grezzi estratti è conseguenza della riprogrammazione dei siti estrattivi dopo la crisi. In realtà gli investimenti sono ripresi in modo consistente. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Solo negli Stati Uniti si sono costituiti gruppi strutturati capaci di offrire quantità significative di diamanti sintetici di grandi dimensioni soprattutto in rete. Non ci sono dati scientifici che possano misurare le reali intenzioni etiche degli acquirenti. In Francia si è partiti da poco e con numeri ancora poco significativi. (Citazione da Dataroom) Osservazioni: Carati “ruvidi” coltivati è un’espressione che ancora una volta denota l’assenza di addetti al settore nella compilazione dell’articolo. È evidentemente una maldestra traduzione di “Lab-grown rough diamonds”. Il prezzo di 800 $ si riferisce a pietre tagliate di circa un carato in determinate qualità e non a diamanti grezzi (ruvidi). (Citazione da Dataroom) Osservazioni: A dire il vero a questo punto andrebbero citati i numerosi interventi sulla catena di custodia dei diamanti realizzati attraverso la tecnologia blockchain. Ma si dovrebbero spiegare anche le complicazioni derivare dall’estrazione artigiana e poco costosa dei giacimenti secondari. Non è vero che i diritti umani siano violati sistematicamente. Non è vero che la produzione di diamanti sintetici possa offrire contributi occupazionali pari all’estrazione. Un quadro distorto che influenza un po’ tutti. Come finire di inguaiare il Congo
Ricapitolando, dagli articoli di Milena Gabanelli si percepisce correttamente che i diamanti sono oggetti di consumo che rappresentano il grosso del valore ella gioielleria mondiale. In Italia i consumatori sono stati rapinati da una trappola truffaldina ordita da molti istituti bancari in complicità con agenti mediatori a loro funzionali. Ma la prosecuzione della narrazione, dopo Report, non è articolata né ben documentata. L’avvento sul mercato dei diamanti sintetici infatti non può considerarsi il canto del cigno dell’estrazione di quelli naturali. Gli investimenti minerari sono diminuiti nel decennio scorso, è vero. Ma per la naturale riconversione degli impianti dopo i cicli produttivi. A ciò si deve aggiungere l’incidenza della crisi finanziaria generale. Il probabile incremento del consumo dei prodotti di laboratorio avverrà sicuramente per quantità ma difficilmente eroderà in valore la richiesta di diamanti naturali. Secondo lo specialista Martin Rapaport i costi sempre più contenuti dei sintetici deprimeranno lo sforzo tentato sinora di assestarsi su quotazioni vicine ai naturali. De Beers ce lo conferma: entra per abbassare i prezzi dei diamanti da laboratorio e creare una categoria commerciale nuova e differenziata. Si farà arbitro e garante di questa differenziazione. Le pretese di maggior eticità dei diamanti sintetici sono indimostrate. Studi scientifici provano che i costi energetici sono simili. E non è possibile liquidare le imprese diamantifere come nemiche dell’ambiente. Il Canada è un esempio di grande attenzione agli ecosistemi dei Territori del Nord. Le grandi imprese guidate da De Beers e Alrosa possono essere prese a modello da tanti gruppi estrattivi impegnati con altre materie prime. Le falle del Kimberley Process si conoscono bene e consistono, tra l’altro, nella porosità dei confini. Ma nell’insieme negli ultimi due decenni i rischi di abusi e finanziamenti di conflitti si sono ridotti di molto. Semmai resta da indagare sull’arricchimento dei gruppi, soprattutto militari, vicini alle elites politiche di molti paesi africani produttori. Ma la corruzione indotta dalla catena distributiva non pare una discriminante scrutinata con attenzione tra i vari criteri di eticità. Inoltre il resoconto del Corriere della Sera non menziona neanche di sfuggita le nuove procedure di tracciamento etico rese possibili dalla tecnologia Blockchain. Il presunto vantaggio etico dei diamanti ottenuti in laboratorio si aggiunge alle stime dell’innegabile escalation della loro produzione e determinano un pregiudizio ed uno sbilanciamento. A leggere, pare che il sintetico, più economico ed ugualmente bello, poiché sarà abbondante ed etico, fagociterà senza appello il mercato dei diamanti naturali. Alla nostra Milena questa prospettiva alla fin fine dispiace. Togliamogli pure i diamanti naturali e paesi come il Congo affogheranno. La soluzione le viene naturale, sulle indicazioni un po’ visionarie di alcune ONG. Portiamo allora la produzione di diamanti sintetici in Congo. Così il Congo perderà una risorsa sicuramente preziosa per ottenerne una che, si presume, sarà tra non molto, simile agli zirconi cubici o la moissanite. Non un’idea brillante. |
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Settembre 2019
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