Ho provato con almeno dieci frasi d’apertura. Niente, le ho cancellate tutte. Mi sento imbarazzato quando devo parlare di te. Perché? Eppure la mia penna, con i suoi tanti limiti, almeno è temeraria, sono abituato a dire quello che penso. Non ho carriere da preservare, non ho equilibri da rispettare. Non ho santi a cui inchinarmi. Allora perché è così difficile parlare liberamente del Tarì? Forse perché nei nostri tempi ci si sente rilassati solo a casa. Restiamo chiusi nel perimetro delle nostre aziende. Nessuno lo dice, nessuno lo ammette. Il fatto che il Centro tutto sommato resista e conservi una sua solidità patrimoniale e finanziaria non vuol dire che che chi lo frequenti o ci lavori respiri entusiasmo, leggerezza, serenità. Caro Tarì, le tue classi dirigenti, tutte - tra i tanti innegabili meriti - non possono annoverare quello della capacità d’ascolto o di autoironia. Perché non mi sento a mio agio? Tanto tempo fa fui tra i primissimi a sottoscrivere, ero entusiasta. Il Centro Orafo il Tarì nacque visionario, nessuno al mondo aveva ideato una struttura specializzata, fuori dal caos urbano e ricollocato sui principali assi autostradali. Nessuno aveva mai osato tanto. Mi piaceva l’audacia un po’ rivoluzionaria di riunire, mettere in comune, progettare. Ma le rivoluzioni sono come gli innamoramenti, hanno vampe di passioni che però bruciano in fretta. Ero ragazzo, non lo sono più. I ragazzi di adesso? Non vedono più nulla di sconvolgente nelle conquiste dei genitori, non vedono quella che fu la carica rivoluzionaria del Tarì. Perché tutto alla fine diventa routine, immobilità. Bisogna saper cambiare, bisogna mettersi sempre in discussione. Questa non è debolezza, è saggezza. Ridurre i sogni, le sfide, le speranze, i progetti, l’innovazione ad una grigia amministrazione di condominio, invece, non è saggio. Non è solo che l’Italia sia retrocessa nella gerarchia orafa. È più grave di questo. È che il modello logistico dei centri specializzati si basava su criteri che una volta erano innovativi, ma che ora sono un retaggio dell’altro millennio. I servizi centralizzati, i distretti specializzati, la prossimità. Tutto è stato spazzato via dalla globalizzazione, dall’azzeramento delle distanze, dall’avanzamento prodigioso dei competitors asiatici, dall’automazione di molti processi di produzione artigiana. Volevamo essere un nuovo distretto prevalentemente industriale. Ed invece eccoci qui, diventati importatori, distributori, assemblatori. E non fa niente, va bene così. È come doveva andare. Ma abulici, no, non lo dovevamo diventare. Meglio un giro di poker disperato, che questo grigio rassegnato, questa paura di esprimersi. Alle rivoluzioni, dopo gli assestamenti, non possono che seguire altre rivoluzioni più rivoluzionarie. La Apple, una volta dato il benservito alla rivoluzione di Steve Jobs, cominciò ad affondare come il Titanic. Guardavano solo i bilanci, senza più la propulsione della visione dei prodotti del futuro. Quando tutto era finito, a Cupertino come si pensò di risorgere, costruendo fucili? No, ed ecco infatti l’I-Phone. Con tutto il rispetto per i proventi che ne derivano, ma che ci fa una fiera per cacciatori in un Centro di finezze artistiche nell’epoca della sensibilità per l’ambiente? E perché, nello stesso momento, la ricerca scientifica deve emigrare come se lo studio dei materiali preziosi fosse fuori tema? Forse che i rubini riguardano i pescatori? Ti scrivo perché nessuno ti scrive. Perché voglio ancora bene a chi ti vuole bene e soffre per te. E per me, nel vedermi ancora tranquillo, come il Signor K. nel tetro tribunale di Praga, soffocato dalle carte ostili di untuosi gendarmi kafkiani, per neanche un metro di parquet da rappezzare. |
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Settembre 2019
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