Contro la riserva indiana. Per una formazione orafa aperta e senza monopoli, bandi e censura.31/12/2016 Questa è un'appassionata invettiva contro la riserva indiana del pensiero unico nella formazione in generale e di quella orafa in particolare. Contro la riduzione sommaria delle conoscenze a semplici manuali operativi. Ed è anche un'apologia della libertà creativa e di tutto quello che la stimola. Ragazzi, per imparare serve qualcosa di connesso. Ricerca, formazione e produzione sono tre funzioni intimamente saldate l'una all'altra nell'esperienza e nelle performance di ciascuna azienda. E lo sanno bene i gioiellieri per il semplice fatto che la loro bottega è stata storicamente un luogo polivalente. In una stanza si sperimentavano in silenzio e a porte chiuse le tecniche (ricette segrete, qualche utensile procurato chissà dove) che portavano all'avanzamento della qualità. Mentre nell'altra gli apprendisti imparavano ma, nello stesso tempo, producevano. Il banchetto era un'aula già predisposta a generare risultati pratici. Eccole qua la ricerca e la formazione. Embrionali, elementari, ma lì pronte, funzioni belle vive e ben individuabili. La bottega artigiana orafa era insomma connessa perché era il Luogo del Passato (tradizione) e del Futuro (innovazione e ricambio del personale). Non era chiusa in sé stessa. Era parte di una rete di altre botteghe, ognuna con una sua vocazione specialistica. Gli orafi sono stati per secoli una Corporazione, un tessuto unico, una trama con una quantità di produzioni, di elaborazioni tecniche e di trasmissioni di conoscenza. Tutto intrecciato. La formazione e lo sviluppo tecnologico si concretizzavano attraverso la contaminazione, la conservazione e/o il superamento tecnico, l'abiura ed il tradimento del maestro. Gli orafi, bravi e meno bravi, posseggono dunque una tendenza a riflettere sugli stimoli dell'innovazione e quindi, come eredi della bottega, hanno una cultura artigiana innata. Che c'entra la cultura con la fabbrica? Ai ragazzi di oggi vorrei dire questo: non lasciate che si idealizzi il passato. Guardate che Il rapporto orafo/apprendista poteva essere severo, brutale. Poteva sconfinare nello sfruttamento o viceversa nel "furto" di un rudimentale know how da parte di chi si metteva in proprio. Ma l'Italia è un paese ricco di idee. Più in generale, la cultura d'impresa è stata, in altri contesti, assai più raffinata ed illuminata. Vorrei che i ragazzi avessero notizia di giganti come Adriano Olivetti, uno Steve Job ante litteram. Questo geniale ingegnere inventò la macchina da scrivere portatile, vale a dire l'equivalente di uno Smart Phone negli anni 30, un aggeggio poco costoso che modificava i tempi della comunicazione. Le sue idee? La fabbrica deve avere biblioteche e sale per concerti, deve accogliere poeti e musicisti mentre ingegneri e tecnici non si devono vergognare di indossare lo stesso abbigliamento. Per Olivetti l'impresa moderna deve vedersi come una comunità aperta agli influssi educativi e formativi di tutte le componenti, deve riflettere il corpo sociale, mischiare le idee, aiutare anche i più modesti collaboratori a pensare in proprio. Olivetti fu stroncato da un aneurisma a 59 anni nel 1962. Sotto la sua guida controcorrente e, se vogliamo, utopistica vi erano decine di migliaia di dipendenti che macinavano un imponente fatturato. Dimensioni che il comparto della gioielleria, spezzettato nella caratteristica statura della piccola e media impresa italiana, non ha avuto e non ha. Ma le ragioni della modernità del pensiero di Olivetti non risiedevano nel suo fatturato ma in quella libertà di pensiero che era resa possibile alla nascente industria elettronica dalla mancanza assoluta di passato. L'artigianato "maturo" come la gioielleria (con un passato ingombrante) ha invece realizzato il passaggio alla fase avanzata, industriale e strutturata, senza avere il tempo per interrogarsi sulle possibilità offerte dall'innovazione e sul ricambio generazionale. Terminata l'era della bottega, le funzioni di sono separate ed in particolare sono rimaste al palo, privi di approfondimento strategico, i temi cruciali della ricerca e della formazione. A parole la troviamo ovunque 'sta formazione. Ci sono in Italia ottimi esempi di insegnamento professionale, anche di gioielleria. Qui non lo nego e non nego che ottimi talenti siano cresciuti ed emersi comunque e dovunque. Ci sono ottime professionalità che nessuno deve metter in discussione. Rispetto il lavoro educativo e non mi permetto di entrare nel merito di alcuna struttura specifica e neppure nell'impegno e nella buona fede. Discuto invece del contesto pedagogico, del terreno alquanto arido e del clima poco favorevole che influenzano ormai da decenni l'atteggiamento generale verso la formazione. Negli ultimi anni gli imprenditori delle PMI purtroppo non hanno trovato Olivetti come riferimento. I loro partner sono molto spesso stati gli amministratori pubblici delegati alla modernizzazione. Il contesto era solo questo: per la qualificazione professionale spesso si sono resi disponibili incentivazioni e risorse. Per rendersi conto di cosa sia, in generale e con le dovute eccezioni, la formazione per gli amministratori pubblici basta aprire i giornali e documentarsi. In una frase (e sfido chiunque a negarlo): progetti formativi incentivati spesso hanno funzionato da incentivo più per i docenti che per gli studenti. C'erano delle opportunità da sfruttare e si è partito da lì, non certo dalle esigenze effettive, da un'urgenza interiore avvertita dal basso del corpo produttivo, dai loro vertici o dalle Associazioni di categoria. A parole la qualificazione professionale la troviamo sbandierata dovunque come un mantra propiziatorio, un fiore all'occhiello, come dicono. Ma nei fatti è prevalsa la convinzione che ricerca e formazione siano degli strumenti incentivati e propagandati che non innescano uno sviluppo tangibile, non spostano la qualità complessiva. Per molti operatori il valore del loro prodotto è intrinseco, già formato per grazia divina, uno stato senza evoluzione. Resterebbe, in quest'ottica, solo da passare ai ragazzi una specie di manuale delle istruzioni. Da questa sottovalutazione del ruolo dell'innovazione tecnica e della qualità della qualificazione degli addetti discende lo scetticismo verso la complessità, l'approfondimento, il naturale aprirsi a ventaglio del sapere tecnico quando diventa cultura. E questa è stata una sottovalutazione grave: l'oreficeria era già Arte e, nell'era dell'informazione globale, doveva restare tale. Ogni azienda a suo modo ricerca e forma, mica solo le scuole. Vorrei più fonti e più punti di vista. Troppo modesti e umili, gli orafi hanno dimenticato che con un po' di sacrificio e di studio le proprie aziende potevano già loro stesse aspirare al passaggio da un sapere artigiano consolidato ad una più moderna cultura d'impresa. La mia azienda vende pietre e per farlo bene le studia continuamente. E ricercando i casi pratici rileva trattamenti ingannevoli. E dunque li rivela. Come fare a dire che la ricerca non coincide con la formazione? E come si fa a dire che le aziende non debbano esercitare la loro missione perché non possono invadere lo spazio della Riserva protetta di una scuola? Io vorrei mille imprese di mille colleghi e mille scuole con cui condividere la ricerca. Perché dichiarare inammissibili i percorsi interni alle aziende? Perché non ricostruire quella molteplicità degli influssi tipica delle Arti e dei Mestieri? Perché appaltare in modo acritico l'intera funzione formativa in un blocco unico? Il pragmatismo tipico dell'imprenditore disinvolto, rapido e vincente ha dato luogo ad una strategia educativa di corto raggio, ottusa nel dialogo con la società e più che mai con i poco amati e contorti intellettuali. Figuriamoci allora se si potevano mai concepire delle strutture formative diversificate, simili alle Facoltà, con approcci articolati, complessi e non necessariamente coincidenti tra loro, se non a volte addirittura volutamente contrastanti. La dirigenza, confidando nel fiuto e senso pratico, teme insomma di perdere la rotta di fronte a tanta teoria. Avverte la dialettica delle idee come un frastuono dissonante di approcci troppo differenti. Insomma, non può essere che insegnare oggi prenda più tempo che produrre! Chiamate la scuola giusta, una sola che faccia tutto e che si sbrighi a clonare i giovani. Senza troppe storie. La creazione di professionalità è un prodotto? No, è amministrare un patrimonio. E così si perde tutto. Si semplifica fino all'appiattimento, si surrogano funzioni strategiche, si disperde la missione più nobile del ricambio generazionale e cioè la costruzione di personalità culturalmente poliedriche. Ed indipendenti imprenditorialmente. L'imprenditore che amministra la formazione spesso non ha avuto la fortuna essere prima lui formato a questa funzione. Non ha preso coscienza che il lavoro educativo è di tipo diverso. E dunque finisce per intervenire con gli strumenti del business e considera la formazione né più ne meno che un prodotto. Del tipo: quanti soldi ci portano gli iscritti? Non è in malafede, non ha preconcetti, semplicemente spesso non ha i concetti. Non vuol farsi concorrenza da solo e quindi amministra il sapere acquistandolo e vendendolo in un regime monopolistico. Diffida dai colleghi che investono in ricerca perché, non controllandola lui, in fondo pensa che vogliano solo mettersi in mostra ed acquisire vantaggi competitivi. Se potesse bandirebbe la ricerca scientifica dal contesto del proprio lavoro. Per lui la ricerca la deve fare il CERN sotto il Monte Bianco. Non riconosce che esistono approcci formativi assai diversificati, intriganti, challenging. Diffidate da maestri che non sono curiosi, eccentrici e open minded. I cuccioli di orafi nella riserva Navaho. Esistono, ad esempio, contenuti più propriamente scolastici, collegati ai movimenti artistici classici e quelli che cavalcano le avanguardie. Esiste un ramo più sensibile ai temi fashion, una frangia di arditi designer vettoriali che volano direttamente nelle stampanti 3D, i pionieri di materiali tecnologici, i puristi della fusione, i traforatori nostalgici delle fasi manuali, i tagliatori e gli utilizzatori di gemme ortodossi e quelli eterodossi a seconda dell'osservanza pedissequa o rivoluzionaria degli angoli alfa e beta di corona e padiglione. E tutte queste cose non stanno più sotto casa nostra. Esistono posti nel mondo che si sono emancipati in gioielleria, che sono assai avanti a noi che ci crediamo ancora i custodi del tempio. In poche parole i prodotti culturali, i lavori di ingegno non possono essere immaginati negli spazi ambigui di una riserva indiana governata da un pensiero unico. La riserva crea Navaho apparentemente liberi ma in fondo soli, ubriachi e depressi. Si realizzano solo quando escono dagli steccati. Forse sono troppe le cose tutte assieme ma poi mi sono innamorato della gemmologia e del mio lavoro. Anche in gemmologia non può dunque esistere un'unica idea, un unico dogma, un unico orientamento, un unico livello, un unico indirizzo, una sola scuola, un unico certificato. Mio figlio per le pietre di colore lo manderei al GIA di Bangkok da Vincent Pardieu per immergerlo nella pratica sul campo. Per i diamanti lo manderei a far esperienza a Mumbai all'IGI o a Tel Aviv al GIA. Ad Anversa gli farei prendere contatto con HRD per la tracciabilità del grezzo. Lo manderei alla facoltà gemmologica di Nantes o al GEM A di Londra ed in un'infinità di posti e di istituti. E sarei ancora più contento se tutte queste opportunità le potesse avere a casa sua senza ostacoli, ostilità al lavoro, bandi ad aziende che esprimono le proprie idee in pubblico. |
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