Chi non ama l’opale fondamentalmente non lo conosce. Poi quando te ne capita in mano un sasso ti chiedi come hai potuto essere indifferente per tanto tempo. E te ne freghi di chi non ha più sensazioni, pensi a te. Cerchi di distrarti, ti concentri su altro. Ma non c’è niente da fare, lui (o lei?) sta là, perfetto, eterno, nobile. Irradia una bellezza così diffusa, inspiegabile che ti pare irraggiungibile. Ok ti amo, facciamola finita. E tu ti prenderai gioco di me e della mia fragilità. Allora ti amerò di nascosto. No, te lo dico. Ecco gliel’ho detto. Ma a chi? Al rosso porpora, al verde carioca, al blu sottile, alle lingue gialle e turchine, a tutto l’iride? A chi sto parlando? Schegge. Mi restano i frammenti del discorso d’amore di Barthes, perché io non so a chi sto parlando. Lo guardo e mi scompongo in cose che per comodità devo definire contraddittorie. Per non allarmarvi. Questo agglomerato amorfo, sereno ed immobile, scuote la mia perplessa persona con le citazioni dei maestri del pensiero francese e poi mi risucchia vigorosamente sottoterra, in una culla primordiale silenziosa, inconscia. Dove non esiste più la parola o la ragione. L’opale del tuo innamoramento ti scaraventa verso un sé bambino (o bambina?), un essere perfetto e infantile che sta oltre e prima. Nella scomposizione dell’acqua. Da un rubino, da un'acquamarina ti aspetti un ristretto spettro cromatico. Lo speri, faccetti e lo ottieni (forse). L’opale grezzo ha questo della follia amorosa: un’identità inafferrabile. Non sai cosa può diventare. Ma una cosa già la sai. Non sarà di un solo colore, non sarà lo stesso se lo ruoti leggermente tra le dita. Quindi devo innamorarmi per necessità, per scardinarmi dalla ragione, per consentire l’aldilà. Per tenermi tutto, per non uccidere sezionando con catene logiche. Ecco, sono pazzo. Non mi scompongo. Anzi mi scompongo. Nell’innamoramento ci sta. Mettetevi tranquilli, poi diventerò normale e sarò ancora come voi. Allaccerò la cintura, stringerò il cinturino, programmerò la sveglia, avviterò in senso orario. E in queste condizioni febbrili, io che non so più come mi chiamo, taglierò l’opale. lo dico subito. Non sarò geometrico, lo so già. Perché non ho interesse in forme specifiche e servizievoli. Ho deciso di andare verso il gioco di colore. E ci andrò. Lavorare l’opale etiope è assai più emozionante. In genere si ha immediato accesso ad un forte gioco di colore, rispetto all’australiano che per fare queste cose costava troppo. Cominciamo a valutare il pezzo prima ancora di toccarlo. È già bello. Mi viene in mente di fare una cosa incredibile ma non del tutto insensata. Andarmene. Lasciare questi sassi, già parlanti, a loro stessi, lasciarli inalterati. Baudelaire lo avrebbe fatto. Prendo il primo grezzo, lo metto da parte, lo guardo e me ne vado. Non lo toccheremo. È perfetto. Poi torno quasi subito. Che bello, trasmetto agitazione e scompiglio. Il nulla è la condizione perfetta. Ma quando mai… Dobbiamo vivere, osare, dobbiamo tagliare. La ruota morde un altro pezzo, quello di prima l’ho lasciato lì. Stiamo rimuovendo il boulder, la corteccia sabbiosa. Ogni secondo è scandito da nuovi colori che si affacciano dal balcone di rocce. Prima arriva Raffaele Viviani (vedarrisse riflesse e scintille, mo rosse, mo verde, mo lilla, mo gialle.) Beh, inevitabile, adesso appare il fantasma di Michele Macrì, il mio amico professore, scienziato della terra ma fondamentalmente teorico dei tagli anticonformisti. Il fantasma si accomoda, poggia un gomito sul banchetto. Sospira e ammonisce: “Non andare oltre, devi lasciarlo così”… Solo un altro paio di colpetti, diciamo noi. Il fantasma si alza lentamente. È deciso. “Adesso staccherò il quadro elettrico”. No! Si squaglieranno i ghiaccioli in frigo! Non siamo più soli. In poco tempo il laboratorio si riempie di numerosi spettri di poeti, musicisti e tagliatori, esperti e rissosi. Chi ci urla di andare verso il giallo, chi verso un certo tipo di blu tonale, chi dimostra impettito sulla lavagna che dobbiamo fare una goccia regolare, chi calcola, chi canta, chi schizza. Nella ressa si insinuano anche zelanti sciamani uzbeki o turcomanni, adoratori dell’opale. Poi il buio. “ Ragiona, è meglio fermarsi, non tagliare oltre. Così è perfetto”. Michele ha davvero staccato la corrente. Prendete i ghiaccioli, prima che si sciolgano e diventino acqua, come i miei pensieri sull’opale. |
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Settembre 2019
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