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Caro Tarì, ti scrivo perché nessuno ti scrive e vorrei che ti rinnovassi

23/6/2018

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(© tari.it)

Ho provato con almeno dieci frasi d’apertura. Niente, le ho cancellate tutte. Mi sento imbarazzato quando devo parlare di te. Perché? Eppure la mia penna, con i suoi tanti limiti, almeno è temeraria, sono abituato a dire quello che penso. Non ho carriere da preservare, non ho equilibri da rispettare. Non ho santi a cui inchinarmi. Allora perché è così difficile parlare liberamente del Tarì?
 
Forse perché nei nostri tempi ci si sente rilassati solo a casa. Restiamo chiusi nel perimetro delle nostre aziende. Nessuno lo dice, nessuno lo ammette. Il fatto che il Centro tutto sommato resista e conservi una sua solidità patrimoniale e finanziaria non vuol dire che che chi lo frequenti o ci lavori respiri entusiasmo, leggerezza, serenità. Caro Tarì, le tue classi dirigenti, tutte - tra i tanti innegabili meriti - non possono annoverare quello della capacità d’ascolto o di autoironia.
 
Perché non mi sento a mio agio? Tanto tempo fa fui tra i primissimi a sottoscrivere, ero entusiasta. Il Centro Orafo il Tarì nacque visionario, nessuno al mondo aveva ideato una struttura specializzata, fuori dal caos urbano e ricollocato sui principali assi autostradali. Nessuno aveva mai osato tanto. Mi piaceva l’audacia un po’ rivoluzionaria di riunire, mettere in comune, progettare.
 
Ma le rivoluzioni sono come gli innamoramenti, hanno vampe di passioni che però bruciano in fretta. Ero ragazzo, non lo sono più. I ragazzi di adesso? Non vedono più nulla di sconvolgente nelle conquiste dei genitori, non vedono quella che fu la carica rivoluzionaria del Tarì. Perché tutto alla fine diventa routine, immobilità. Bisogna saper cambiare, bisogna mettersi sempre in discussione. Questa non è debolezza, è saggezza. Ridurre i sogni, le sfide, le speranze, i progetti, l’innovazione ad una grigia amministrazione di condominio, invece, non è saggio.
 
Non è solo che l’Italia sia retrocessa nella gerarchia orafa. È più grave di questo. È che il modello logistico dei centri specializzati si basava su criteri che una volta erano innovativi, ma che ora sono un retaggio dell’altro millennio. I servizi centralizzati, i distretti specializzati, la prossimità. Tutto è stato spazzato via dalla globalizzazione, dall’azzeramento delle distanze, dall’avanzamento prodigioso dei competitors asiatici, dall’automazione di molti processi di produzione artigiana. Volevamo essere un nuovo distretto prevalentemente industriale. Ed invece eccoci qui, diventati importatori, distributori, assemblatori. E non fa niente, va bene così. È come doveva andare. Ma abulici, no, non lo dovevamo diventare. Meglio un giro di poker disperato, che questo grigio rassegnato, questa paura di esprimersi.
 
Alle rivoluzioni, dopo gli assestamenti, non possono che seguire altre rivoluzioni più rivoluzionarie. La Apple, una volta dato il benservito alla rivoluzione di Steve Jobs, cominciò ad affondare come il Titanic. Guardavano solo i bilanci, senza più la propulsione della visione dei prodotti del futuro. Quando tutto era finito, a Cupertino come si pensò di risorgere, costruendo fucili? No, ed ecco infatti l’I-Phone. Con tutto il rispetto per i proventi che ne derivano, ma che ci fa una fiera per cacciatori in un Centro di finezze artistiche nell’epoca della sensibilità per l’ambiente? E perché, nello stesso momento, la ricerca scientifica deve emigrare come se lo studio dei materiali preziosi fosse fuori tema? Forse che i rubini riguardano i pescatori? 
 
Ti scrivo perché nessuno ti scrive. Perché voglio ancora bene a chi ti vuole bene e soffre per te. E per me, nel vedermi ancora tranquillo, come il Signor K. nel tetro tribunale di Praga, soffocato dalle carte ostili di untuosi gendarmi kafkiani, per neanche un metro di parquet da rappezzare.

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Gemmologia narcisista e gemmologi ribelli. Criticatemi pure, ma non azzardatevi a dire che io copi le mie idee da qualcun altro

28/5/2018

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​In un convegno di settore non molto tempo fa, al cospetto di un nutrito pubblico, ho affermato nientedimeno che i gemmologi sono una categoria che spesso sconfina nel narcisismo. Che intendevo? Fuori da inopportune generalizzazioni, e col dovuto rispetto per una categoria in cui militano personalità eccellenti anche sotto il profilo umano, volevo dire che i gemmologi possono, anche inconsapevolmente, approdare a posizioni di autocompiacimento. Che non aiuta. Alla ricerca, che allarga gli orizzonti, si sostituisce la missione, che li riduce.
 
Infatti qualche volta, nell’esercizio della loro professione, alcuni si vedono più che altro come sacerdoti investiti da una missione quasi esorcistica. Soli a combattere contro un demiurgo crudele che dissemina trappole ed inganni. Un demone che getta qui e lì al pubblico inesperto gemme ambigue e fuorvianti. Un diavolo tentatore che riempie le fessurazioni dei rubini. Sì, deve essere il diavolo.
 
Il mondo del male, insomma, congiura perennemente contro i cavalieri solitari, gli instancabili arbitri dell’identificazione, i paladini delle certezze, che non possono far trapelare dubbi. Insomma il senso di una missione, che viene percepita quasi come quella di un giudice, porta alcuni gemmologi ad un isolamento individualista. Li convince che possono rispecchiarsi esclusivamente in un bagaglio tecnico da custodire con le gemme in cassaforte, lontano dagli altri.
 
Non ci allarmiamo, questi arbitri solitari sono in buona compagnia. Molte figure professionali oggi sconfinano nell’autoreferenzialità. Anche gli enologi - in alcuni casi - mi danno l’idea di celebrare riti ispirati a singolari visioni massoniche. C’entrerà per caso un po’ anche la forza finanziaria delle cantine che giudicano?
 
Il sapere oggi non è più di moda nell’accezione di arricchimento, di scambio, di dialettica. A me piaceva quel vecchio e classico concetto di conoscenza che comportava condivisione, sfumature, pluralità di visioni, multidisciplinarità, multilateralità e cooperazione. Le applicazioni di semplici procedure tecniche sono invece un rifugio ideale per chi non desidera mettersi in continue relazioni.
 
Può esistere una conoscenza solitaria, fuori dalle società? Si, se ci si limita ad applicare meccanicamente un protocollo codificato come Tavole di Legge. Ma allora che conoscenza è? Alla conoscenza il narcisismo professionale preferisce dunque il know how, il principio costitutivo di un elitarismo inquietante che vuole imporre manuali applicativi piuttosto che ricorrere al metodo del confronto scientifico.
 
Ecco perché gli eventi che mi piacciono non propongono certo la trasmissione acritica di nozioni dai conferenzieri-arbitri al pubblico impaurito e tenuto nella paura che il CVD sia troppo difficile da identificare al di fuori del grande rito tecnico officiato dai gemmologi. Gli incontri che ho in mente devono essere concepiti non certo per propagare e difendere un club ma piuttosto per incoraggiare gli appassionati, quelli incuriositi dai collegamenti insoliti, dal confronto tra più soggetti. Quelli che sanno tanto, assieme a quelli che sanno meno, quelli che sono consapevoli dei propri limiti.
 
In occasione dello stesso incontro da cui ero partito, scambiando le ultime chiacchiere prima del treno, provai a chiamare quello che avevo in mente “gemmologia per ribelli”. Dove i ribelli sono quelli che si appassionano a tutto, entrando in relazioni con tutti, e accumulano dati piuttosto che giudizi. Beh, datemi torto e chiamatemi involuto, approssimativo, visionario, contraddittorio, anticonformista, utopista, ignorante, quello che vi pare. Ma non azzardatevi a dire che io copi le mie idee da qualcun altro.

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Lustro e saturazione, perle e berilli. L’arte lascia volentieri la perfezione ai chirurgi ed ai meccanici

10/5/2018

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​La perfezione è un concetto che nasconde una sgradevole ombra di mediocrità. Dietro il mantra della perfezione in controluce il leggo una bella dose di meschinità da parte di chi, in gioielleria, non vuole prendersi la responsabilità di capire cosa è bello.
 
“Non lo so, non voglio perdere tempo. La bellezza è la perfezione”. Non mi riconosco in questo gioco di luoghi comuni. Un po’ come la storia di vendere emozioni. La verità? Non mi riconosco in quelli che credono che la perfezione sia un valore oggettivo.
 
Molto più interessante parlare di armonia. Quando ad Amsterdam vediamo i quadri di Van Gogh da vicino notiamo quasi delle escrescenze di materie coloranti. Nessuna stampa restituisce quella tridimensionalità “difettosa”. Ma il senso di armonia ci ricopre in modo voluttuoso.

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L’arte lascia volentieri la perfezione ai chirurgi ed ai meccanici. Molto meglio lasciarsi andare alle proprie sensazioni istintive. Quando ho trovato questi berilli mi sono sentito colpito allo stomaco. Sono venuti dritti da me dalle loro anonime buste. Erano già amici tra loro, affratellati dalla chimica, gemellati dal tagliatore che li ha trattati con un medesimo tocco, credo affettuoso.

Le perle perfettamente sferiche. Le devo cercare, le devo avere, le devo vendere. Ok, sono d’accordo. Ma non mi dispiace che se le accaparrino i giapponesi. Non mi dispiace che alla fine io resti senza. Io mi sono accontentato di queste un po’ barocche, ciascuna imperfetta insomma. Ma mi ha rapito il lustro.
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E poi tutto questo, io imperfetto, lo ho esaminato con una mia amica orafa imperfetta. È la sua imperfezione la cosa che piace a tutti perché le consente una visione limpida e d’assieme che non posso che definire commovente.

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Vendiamo oggetti belli, ok. Ma per favore non dite che vendiamo emozioni

13/3/2018

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Totale imponibile della mia voglia di vivere €1000, più IVA 22%. Se io mi mettessi veramente a vendere le mie emozioni per prima cosa dovrei ipotizzare qualcuno che desideri comprarle. E davvero non so se è più grottesco il fatto che qualcuno le compri o l’idea di mettersele a vendere. Altra cosa è dire che posso vendere cose tenendo ben in considerazione quanto conti l’emotività mia e di quelli cui mi rivolgo.
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Io vendo pietre. Perché da un po’ tutti mi dicono che la gente come me vende o dovrebbe vendere emozioni?

 
Le emozioni, le illusioni, le speranze, i rimpianti, le ansie non sono cose che si vendono. Non saprei come vendere ‘sta roba. Ma attenti, quando gli slogan ispirano le omelie e i sermoni diventano litanie vale la pena di far ispezionare le chiese. Vuoi vedere che, sotto sotto, quello che mi stanno dicendo è che sto sbagliando qualcosa?
 
Un grande megafono agitato da un moderno Totò stile Votantonio ci impartisce queste belle strilla del marketing del terzo millennio. “Voi non vendete più come prima perché i clienti che entrano in gioielleria vogliono qualcosa in più di quello che già trovano navigando nel lussureggiante oceano del web. Voi non vendete più come una volta e la colpa è vostra perché non vi siete ancora accorti che dovete vendere emozioni”. Guarda un po’ che ingenuo, io pensavo ancora che chi è in affanno nel vendere piuttosto dovrebbe ragionare prima di tutto sul semplice fatto che non è stato bravo, ha aperto tardi il negozio o non lo ha pulito o non ha le cose giuste da vendere.
 
Facciamo che che il problema se lo pongano un campesino peruviano o un muscoloso bracciante nubiano. Immaginiamoli mentre tornano mesti nei propri miseri villaggi perché non hanno accocchiato (ricavato, portato a termine) nulla e la loro giornata volge al termine. Sono delusi e pronti a farla finita precipitandosi l’uno nei vertiginosi precipizi andini e l’altro bruciato dal sole mentre vaga smarrito tra le dune. Finale a sorpresa e con lieto fine: il contadino peruviano e quello egiziano ora sorridono e non guardano più sconsolati il proprio cesto di ortaggi invenduti. Hanno avuto un’intuizione di marketing. Adesso sanno cosa fare. Non importa più che sono arrivati tardi, che il sole abbia fatto marcire le rape, che tutti siano già andati a comprare le zucchine del supermercato. Ecco la soluzione. Venderanno emozioni, non più cavolfiori.
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È vero, vorremmo vendere in un’atmosfera più morbida e favorevole
 
Mi si obietterà: “Allora le emozioni non contano?”. Contano una cifra, altroché. Gli esseri umani si caratterizzano per il fatto di possedere una sfera emozionale più arcaica, più forte, più importante di quella razionale. Il commercio e la manifattura sono due delle tante attività umane portate avanti dalla parte razionale. Ci aiuta la logica, se vogliamo ci aiuta la letteratura, ci aiuta la ragioneria. Se vendiamo e compriamo oggetti o servizi finiti, variabilmente durevoli, lo facciamo innanzitutto in una dimensione di razionalità.
 
​In questo ambito siamo guidati, influenzati, orientati anche dalle nostre emozioni. Ma poiché l’emotività esiste solo come risposta soggettiva non possiamo vendere emozioni, né le nostre né quelle degli autori dei gioielli. Non esistono sentimenti impacchettabili. Quello che vorremmo veramente fare è una cosa diversa. Vorremmo tentare una vendita, una cessione di beni che ci premi con utili, che sia capace di concretizzarsi attraverso la sollecitazione delle componenti emotive del compratore. Vorremmo favorire il processo di creazione di emozioni. Vorremmo il soccorso ed il calore di un’atmosfera più morbida in cui ragionare empaticamente e con sentimento.
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Per vendere bene possiamo anche tacere

 
Se vogliamo vendere pietre (campesino stai attento, questo vale pure per le tue zucche) desideriamo null’altro che attivare delle relazioni razionali con altri esseri umani. In questo ambito ricorriamo ad un tipo di comunicazione che si giovi anche degli aspetti più trascendenti delle cose e che ci consenta di mettere in campo, in qualità di nostri alleati, sensazioni ed istinti. Ti illustro i vantaggi con la logica dei numeri e ti trasmetto pure - sempre razionalmente - un invito solleticando una tua reazione estetica ed emotiva.
 
Posso argomentare, ragionare, far riflettere per vendere una cosa (non un’emozione). Ma quando porto sulla scrivania una spessartina arancio, una tanzanite o un granato purple per venderle posso anche semplicemente tacere. Dall’altro lato della scrivania un cliente (essere umano senziente) può anche star zitto. A lavorare ci penseranno le onde elettromagnetiche color mandarino, blu o fucsia che si scontreranno con i nostri recettori neurologici. Che bello, non devo fare nulla.
 
Ed al mio cliente potrà accadere di tutto, anche qualcosa di non lontano di quello che è accaduto a me quando fu io a giocare la parte del compratore. Gli si formeranno ricordi, si riaffacceranno nella sua mente umidità novembrine, versi di Saba o di Paul Eluard, note dei Pink Floyd. Solo Dio lo sa cosa formeranno le sue emozioni. Ma quella è roba sua, non gli sto passando il mio timbro cromatico ed il mio pacchetto di associazioni psichiche. Allora che cosa stiamo facendo?

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Il grande fantasma di noi stessi che non riusciamo a vendere. La Visa non passa, ha mica una Emotional Card?

Stiamo solo tentando di vendere un oggetto. E siamo così impauriti dall’eventualità che non si venda che vorremmo agire direttamente nella mente e nel cuore del potenziale cliente. A ben vedere - tornando all’esempio del tentativo di vendita silenziosa della spessartina - lì c’è uno schema antico ma ancora utile ed universale poiché non si deve adattare alle stagionalità.

Ora, però, il fatto che si viva un momento storico di crisi generale, e di crisi di vendita di gioielli in particolare, pare al contrario autorizzarci, come estrema risorsa, a mercificare i sentimenti mettendoli al servizio del marketing. Quello che dovremmo fare invece sarebbe di studiare seriamente i cambiamenti sociali che modificano l’orientamento agli acquisti. Storicamente in Italia s’è comprata, ad esempio, fino a qualche decennio fa tanta oreficeria per un puro calcolo, caro alle famiglie ed ai propri riti, teso a patrimonializzare i regali in occasione delle celebrazioni. Si sono venduti gioielli senza per forza dannarsi per suscitare forti emozioni.

Nel vendere misceliamo da millenni l’esperienza razionale con quella emotiva. Io, venditore (essere umano senziente) devo starmene buono ed accontentarmi di aver creato un incontro semplice ma ben strutturato. Soggetto A che guarda una spessartina che è contemporaneamente guardata da un soggetto B. I soggetti A e B comunicano attraverso differenti risposte, al contempo razionali ed emotive, suscitate dalla stessa spessartina.

Quando il mantra del vendere emozioni risuona nei riti di marketing io percepisco le note di una triste resa consolatoria al demone dei modelli di consumo più scriteriati, quelli che che nelle stagionalità negative non trovano di meglio che ridurre l’emotività ad un bene di scambio. La Visa non passa, ha mica una Emotional Card? 

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Le macrofotografie delle inclusioni delle gemme sono opere d’arte?

8/2/2018

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Non è la prima volta che i gemmologi, frugando negli spazi misteriosi dei cristalli, finiscono per trovarsi così emozionati di fronte alle immagini che essi stessi producono, da domandarsi se non abbiano forse  sconfinato in un altro dominio, nella sfera cioè di vere e proprie rappresentazioni artistiche. Quando poi, avendole stampate, le foto diventano oggetti tangibili come quadri la domanda che si pongono diventa chiara: esiste una forma d’arte spontanea alla quale l’essere umano non serve più, innata e rivelata in sé dalla semplice riproduzione dei fenomeni? Del resto lo stesso Plinio, il precursore d’ogni ragionamento gemmologico “moderno” ammoniva gli studiosi delle pietre a considerarle preziose per il semplice fatto che hanno l’impagabile valore di farci contemplare le spettacolari ed intriganti lezioni impartite dalla Natura. La loro bellezza conteneva - nell’interpretazione del grande naturalista latino - un esplicito invito alla contemplazione. Immergersi, perdersi per poter leggere - noi miseri e caduchi - il mirabile disegno del sistema perfetto della Magister Vitae che dava ordine al mondo.
 
Si sa cosa è avvenuto poi. In epoca più recente le arti figurative si sono liberate dalla prigionia dell’imprescindibile, fedele e - per secoli monotonamente inevitabile - rappresentazione della natura. Ci si è dati a frenetiche scorribande in forme astratte, ribaltamenti geometrici, cambi di visuale. Gli ultimi cento anni della grande pittura offrono una nuova configurazione estetica che allena il nostro occhio a forme e colori eccentrici, ben lontani dalle rappresentazioni dell’arte classica.

Domanda. Ci adeguiamo alla Natura, imitandola, come voleva Plinio? O piuttosto le immagini gemmologiche delle inclusioni sono opere d’arte già compiute di una natura che anticipa le nostre pulsioni creative? A trenta e più ingrandimenti non si riconosce forse, in certe disposizioni di materiali imprigionati nei cristalli, lo stesso gioco fatto con i segni astratti di un artista come Pollock? Il parallelo appare legittimo. Tracce di colore svolazzano in quei quadri alla maniera dei fluidi catturati dalle gemme. L’accostamento è ovvio, se ne potrebbe discutere.

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Chi ha dipinto, chi ha fotografato? Una immagine del fotografo napoletano Geppi Imperatore sovrapposta all’opera di Jackson Pollock, “Full Fanthom 5”. Un accostamento un po’ provocatorio che però mostra come gli idrossidi del quarzo funzionino egregiamente se se ne fa una lettura artistica.

In questo stuzzicante contesto una decina d’anni fa sono state portate su tela e mostrate al pubblico alcune delle tante interessantissime foto realizzate da Willi Andergassen, un appassionato studioso italiano di pietre con passato da aviatore, scomparso nel 2001. I curatori delle esposizioni delle foto di Andergassen compresero appieno il grande potenziale delle immagini che era riuscito a catturare nel mondo sommerso dei cristalli. Il tutto realizzato peraltro in un’epoca contraddistinta da tecniche di ripresa e di sviluppo molto lontane dalle infinite possibilità del digitale.

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Una delle tantissime foto custodite e valorizzate dalla Fondazione Willi Andergassen.

​Questi che evidentemente sono trigoni in un diamante evocano un misterioso tappeto di triangoli perfetti. La composizione ottenuta dal bel taglio della ripresa fotografica fa pensare ad una creazione che enfatizza simboli geometrici, un po’ come i quadrati essenziali di Piet Mondrian. E lo stesso Mondrian nella composizione qui sotto non evoca forse il gioco complanare ed iso-orientato di molte inclusioni tubolari o aghiformi presenti in tanti cristalli?

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Composition in Blue Gray and Pink, Piet Mondrian, 1913.

​In tempi più recenti, lo scorso novembre 2017, il tema dell’estetica della macrofotografia delle pietre è stato riproposto in Cina dal Tongji Zhejiang College in collaborazione con Lotus Gemology e la Shanghai Bairui Jewelry Corporation. Chi conosce Lotus Gemology sa che si tratta in pratica della famiglia Hughes. Dick Hughes è un personaggio tra i più eclettici del panorama gemmologico. Il suo è un approccio assai curioso ed intrigante. Quando lo conobbi al Ciges di Napoli fui colpito dalla sua metodologia che è tesa ad includere gli aspetti emozionali della conoscenza. La sua presentazione mirava proprio a trasmettere questo senso vibrante della ricerca della bellezza. Non a caso la descrissi come una forma di Gemmologia Umanistica e non a caso in Cina Billie, la bravissima figlia di Dick, ha esposto alcune sue foto di inclusioni assieme ad immagini dai luoghi di produzione, un lungo e magnifico reportage che racconta bene la storia, il percorso, la vita delle gemme.

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Le foto di Billie hanno una definizione netta e spietata che ricorda la messa a fuoco pluridimesionale dei più grandi e recenti film d’animazione digitale. Solo che là dentro è tutto vero e gli scatti conservano, aldilà della fascinazione, un'eccellente funzione didattica. Per finire (ma ne riparleremo presto) non trovo di meglio che questa citazione del filosofo John Armstrong: “The experience of beauty, we may then say, consists in finding a spiritual value (truth, happiness, moral ideals) at home in a material setting (rhythm, line, shape, structure), and in such a way that, when we contemplate the object, the two seem inseparable”.
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In sequenza da Lotus Gemology: “Cristallo di calcopirite che galleggia nel Mar Rosso di un Rubino di Montepuez, Mozambico” e sotto, “Iridescenza in un cristalli di calcopirite in un Rubino del Mozambico, regione di Montepuez” (Foto: Billie Hughes, www.lotusgemology.com)
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(Foto: Billie Hughes, www.lotusgemology.com)
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2018 cose da fare nel 2018. Da uno che già voleva fare troppe cose nel 2017

29/12/2017

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Dispersivo entusiasmo di quel soggetto caotico che sarei io. Nel 2017 ho fatto 2017 cose e nel 2018 ne voglio fare 2018. Devo ancora iniziare e già mi sono incartato nei numeri. Da un po’ ho bisogno di un diario e per prima cosa voglio fare qualcosa per me, e cioè continuare questi modesti blog scritti spesso all’alba. E voglio ringraziare quei pochi che li leggono. È un piccolo spazio in cui posso essere me stesso, dire fino in fondo quello che penso. Apro la finestra sul mio blog/giardino e, respirando per cominciare a lavorare sulle pietre, rifletto sulle cose che scrivendo ho imparato:

  1. Ogni volta che parto dalle pietre arrivo a tante altre cose. Potere di distrazione dei cristalli? No, se partissi dalle pasticche dei freni o dai mattoni Lego sarebbe la stessa cosa. Le cose sono sempre legate le une alle altre. Più si connettono le gemme tra loro, ai loro territori, alle loro caratteristiche, più si è onesti. Guardiamo anche a tutto quello che non c’era stato detto.
  2. Quando mi comporto, fuori dal giardino protetto del blog, con lo spirito che ho quando cerco di scriverlo, le cose mi vanno meglio. Detto in altri termini: se provo ad essere più immediato, anche nella vita convenzionale, divento subito più credibile, convincente. Solo qui io sono me stesso. Se prendete le persone a mattina inoltrata, quando la magia del giardino è evaporata negli impegni della scrivania, spesso non le troverete più libere, autentiche, disinvolte. Per ricordarmi di non massificarmi, dopo il caffè delle 10 guardo ammoliti, quarzi rutilati o qualunque opale passi nelle vicinanze.
  3. Quando scrivo capisco le pietre che normalmente non capirei. È evidente, devo riprodurre una pietra senza microscopio e senza foto. Posso ricorrere solo alle emozioni. Non sarebbe male bendare i gemmologi a turno, per un giorno. Ed obbligarli a descrivere quello che vedono da ciechi. Gemmologi eremiti, diamantari costretti alla meditazione. E perché no?
  4. Alla fine c’è posto per tutto. Un pensiero disteso e senza l’assillo dei compiti da fare, dei conti da chiudere, dagli investimenti da pianificare, diventa come un respiro più profondo, si fa entrare più ossigeno e i mille argomenti del mio mondo lavorativo diventano coerenti. 
  5. Parlando nel blog, nel mio stile del blog, ho conosciuto personaggi interessantissimi da cui sto imparando molte cose.
 
Ma questa serenità spesso non dura oltre l’alba. Ti suggeriscono che è ora di indossare la divisa. Come potrebbero resistere equidistanza e ingenuità quando uno poi si deve scomporre nel commerciante, nell’osservatore, nell’editore, nell’amministratore, nel motivatore, nell’organizzatore, nell’analista? Caro Totò, sono tutti caporali i terrestri che popolano la terra e solo alcuni di loro, a volte, prendono i gradi di uomini. Chi legge oggi, gli uomini o i caporali? Come ti percepirà un caporale? Ogni azione anche scema sarà valutata come parte di un piano premeditato per ottenere vantaggi, per mettersi su una posizione di forza. Per quieto convivere con gli inesorabili caporali bisognerebbe chiudere questo tipo di diario, ogni riflessione non dovrebbe infastidire, non dovrebbe alludere, sottintendere, non dovrebbe prestarsi ad essere mal interpretata. I pensieri dovrebbero essere neutri ed indolori. Un ragionamento dovrebbe essere misurato, non trascendere dal business e mai farsi critico perché se no i poteri forti ci restano male. Non si dovrebbero avere dubbi ma solo certezze. Perdi i clienti, perdi i protettori, perdi i contatti supremi, perdi Dio, resti solo nel giardino incantato tu e la tua presunzione di ingenuità. Un diario come questo è solo un gran rischio inutile. Sarebbe meglio postare clip.

Nel prossimo anno farò 2018
cose, una in più dell’anno che sta finendo, tutte di slancio e con convinzione, farò viaggi, progetterò prodotti, scriverò e tradurrò articoli, sarò se necessario polemico e forse (volesse Dio) anche contraddittorio.  Ma non fesso. Con chi non sa leggere (e parlo degli analfabeti dell’anima) farò il caporale
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Etica? Lasciamo perdere i paroloni e limitiamoci a non fottere gli altri

2/11/2017

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Fottere. Ecco, ho usato nel titolo un termine eticamente censurabile.
 
È moralmente diseducativo oltre che inelegante usare una parolaccia in un titolo. Ma solo la parola fottere mi viene in mente per descrivere con senso pieno quello che i fanno i cinici call center quando mi proiettano nei crudeli labirinti dei loro evasivi risponditori automatici. Oppure quando le low cost aeree ti nascondono l’opzione di rinuncia ai servizi aggiuntivi, le pay tv ti deviano quando vuoi ridimensionare e non estendere il tuo pacchetto. Fottere è il vero nome del gioco, la sostanza delle cose. Ed io, sebbene usi una parolaccia per rendere l’idea di un sopruso, posso convincervi che da maleducato mi sto comportando eticamente bene. 

Non dimentichiamoci che potrei anche essere formalmente impeccabile e poi invece comportarmi male. Siccome si avrà l’impressione che ci vada giù duro meglio fare la solita premessa cautelativa. Ho il massimo rispetto degli sforzi delle imprese per applicare principi etici nelle loro procedure o per promuovere iniziative di natura benefica in ambito sociale. Però mi sono persuaso che questa storia dell’etica venga spiegata ed interpretata male da chi se ne occupa nelle imprese e raccontata peggio al pubblico. Sotto i lodevoli (a volte) buoni propositi alberga tanta confusione. E diciamola tutta, tanta ipocrisia. Allora facciamo le cose semplici, usiamo termini comprensibili anche ai ragazzi e andiamo dritti al punto.

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Predicare bene e razzolare male. Non mi potete dire cosa giudicare e cosa no
 
Ridotto tutto all’osso, l’etica, intesa nelle parole dei nostri tempi, è il modo corretto in cui singoli individui e gruppi pensano ci si debba comportare nelle relazioni sociali. Un animale sociale come l’uomo non deve sforzarsi: i manuali da seguire li trova già tramandati dalle consuetudini e ad essi gli conviene conformarsi. Li eredita alla nascita da quel patrimonio sedimentato costituito da millenni di ragionamenti filosofici su ciò che è bene o male in società. Dovremmo già sapere che far lavorare bambini di otto anni, importunare le donne, inviare medicine avariate in Africa sono cose che non si fanno.
 
Non dovremmo neanche sforzarci di elaborare codici etici per le aziende. L’etica è fai da te, non ha punti di partenza. Non è altro che il continuo processo ed il modo di far funzionare i valori che le società umane trovano, in quel momento, giuste. Non ci sono epoche più etiche di altre. Quindi non esiste un’azione più etica di un’altra o azioni esenti da conseguenze etiche. Infine - e qui sta il cuore della questione - le aziende non possono circoscrivere in una camera stagna lo spazio nel quale il mondo esterno le potrà valutare eticamente. Per pensare poi di farla franca poiché si ritengono neutre, inattaccabili e ingiudicabili al di fuori di quelle belle paginette e di quei bei compitini da Boy Scout. Le aziende - come gli individui - sono, al contrario, responsabili di tutto quello che fanno. 

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Come valutate una persona, così valuterete un’azienda. Apriamo i giornali. Prendiamo la fatturazione a 28 giorni della telefonia mobile

Non si può fare. Non lo dico io. L’Agcom, le Associazioni di consumatori, persino Sottosegretari e Ministri della Repubblica manifestano disaccordo e condanna per la pratica scorretta che è un aumento tariffario mascherato e non debitamente comunicato all’utenza. Alt! È qui che si misurano i valori etici delle imprese in questione. Non è che ognuno possa fare i fatti suoi con la tariffazione abusiva e poi spararsi pagine web in cui autocelebra orgogliosamente le proprie azioni benefiche di Responsabilità Sociale, il ramo in cui si concentrano gli interventi virtuosi delle imprese nel contesto di aiuti concreti alla società.
 
Nelle abbondanti sezioni etiche delle proprie abbaglianti pagine web i gestori della telefonia ci fanno leggere tante belle cose, una serie di lodevoli iniziative che spaziano dalla riduzione degli impatti ambientali, a metodologie per razionalizzare ed evitare gli sprechi alimentari nelle catene distributive food. Non entro nel merito (ma lo si dovrebbe fare), per me i buoni propositi vanno sempre bene, credo sulla parola. Il punto è invece: cosa è che conta di più? Contano più di tutto le belle parole che usiamo per mostrare quanto siamo stati bravi? Che, ad esempio, rispettiamo i criteri edilizi di sostenibilità (a cui magari dovremmo già conformarci per legge, senza tante storie)? O sono invece più importanti quei comportamenti effettivamente ed oggettivamente messi in pratica? La scorrettezza che si mette in campo dove la gente più ci vede, quando cioè viene a comprare il nostro prodotto, non sfugge al giudizio etico.         
 
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I diamanti da investimento sono ingannevoli e venduti a prezzi gonfiati. Però per loro (l’intermediazione finanziaria) sono etici
 
La notizia è di poco fa. L’Antitrust ha multato (spiccioli rispetto ai colossali ricavi) due agenzie di intermediazione e qualche banca. Avevano inventato dei listini e li millantavano per indici borsistici. I risparmiatori italiani ci hanno rimesso un paio di miliardi di euro. Noi adesso non dobbiamo più guardare le originali cravatte o le inarrivabili finiture delle scarpe di quei dirigenti che hanno messo su questo gran bel giochetto e ci hanno detto di firmare. Se andate sul web noterete che i furbacchioni fanno azioni caritatevoli, aiutano i progetti della comunità di Sant’Egidio. Promuovono l’arte, consigliano mostre. Guardate qua i certificati. I loro diamanti poi sono tutti etici e non insanguinati: hanno il certificato di Kimberley (gioiellieri, ma voi li avete mai visti poi, al dettaglio? Ed all’origine poi, chi non ce l’ha?). Costano il doppio? Ma che particolari andate a vedere! 
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Ehi dico a te! Devi resettare e poi premere fino in fondo quel cazzo di spinotto! 

Bisogna far capire le cose di principio già ai bambini ed ai ragazzi perché la nostra vita sociale non è regolata dai paroloni ma dai buoni esempi. I valori fondanti sono sempre semplici. Questa benedetta etica neanche esiste se non cominciamo con l’insegnare che la buona educazione è importante non sotto forma di obbligo ma quando comprendiamo che fa bene a tutta la famiglia e quindi a tutta la società, quando ragioniamo sul fatto che quello che a volte ci viene solo inculcato è anche conveniente. Niente più di questo. Quando un buon comportamento fa bene agli altri, questo è etico. Molto etico è fare qualcosa di concreto, anche mettere soldi per i disagiati del Burkina Faso, ma senza esagerare nel vanto e senza appendere troppi manifesti. Non mercifichiamo la nostra presunta buona azione cercando di ricavarne sfacciatamente dei vantaggi. Alla fine la gente se ne accorge. Quanto sarebbe bello se, quando mi salta internet e frugo miseramente tra le borchie e i cavi, una voce umana e non robotica mi dicesse: “devi resettare e poi premere fino in fondo quel cazzo di spinotto”. Tim, Wind, Vodafone, un essere umano sboccato risolverebbe il problema, avrebbe fatto la cosa giusta ed etica.

Invece dobbiamo prendere atto che la moderna cultura d’impresa considera la materia etica come un’estensione del suo braccio di marketing. E così diventa goffa. Poi, maneggiando valori astratti che le sono estranei, esegue costruzioni involute, indifendibili e indecifrabili. Mettete dei ragazzi a leggere le paginette web della responsabilità sociale nei siti delle aziende. Non capiranno nulla, solo fumosità, ambiguità, sofismi e complessità inutili, le deviazioni strumentali delle buone cause, i paroloni.
Allora non posso che chiudere così: ragazzi fare attenzione ogni volta che vedete usare la parola “etica”. Probabilmente vi vogliono fottere. 

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