Non ci sarà il lieto fine. I danni dono stati fatti e molti purtroppo non saranno facilmente recuperati, anche se forse assisteremo a sanzioni tardive. Il gioco fraudolento va avanti ancora oggi, malgrado le nuove inchieste giornalistiche. Quotazioni decisamente superiori ai corsi di mercato. Ecco le conclusioni cui è giunto il Sole 24 Ore che ha pubblicato sul numero del 30 settembre un approfondimento sulla bolla speculativa causata da alcune agenzie di intermediazione che hanno piazzato diamanti al pubblico, tramite la decisiva cooperazione offerta dal canale degli sportelli bancari. I fatti i gioiellieri li conoscono bene. Li ha denunciati Federpreziosi da già più di un anno. Ha fatto seguito la celebre puntata di Report, vero punto di svolta e di detonazione della controversa - se non vogliamo dire scandalosa - vicenda. Si tratta di una macchinazione tutta e solo italiana, un meccanismo perverso costellato di scorrettezze e passaggi ingannevoli. Sul pasticcio, che ha generato un giro d’affari di mezzo miliardo di euro nel 2016, stanno indagando Consob e la Procura di Milano. L’Antitrust dovrebbe pronunciarsi a breve. Tutto rientrerà e si riaggiusterà? Vedremo, allo stato attuale il pur approfondito articolo del più importante quotidiano finanziario sembra più dar conto delle tappe di un colossale abuso piuttosto che preludere ad una risoluzione positiva. Ecco perché nessuno ne esce bene e perdono un po' tutti. Guardiamo le posizioni una per una. Ramo dettaglianti di gioielleria, due miliardi di giro d’affari andati in fumo Una volta la cosa funzionava come dovrebbe funzionare (e funziona) in tutto il mondo. Vuoi un diamante? Un regalo per tua moglie? Qual è il posto giusto per trovarlo? Una gioielleria con addetti esperti, aggiornati e preparati. Valuti con professionisti quale sia la scelta più equilibrata per il soddisfacimento estetico (il diamante serve per fare gioielli) e per il valore intrinseco (è un bene rifugio, il valore non si disperde). Devi stare ad ascoltare le caratteristiche qualitative, valutare l’effetto, trasporre il tutto in un gioiello grande o piccolo, con una pietra più significativa centrale o con un pavé di pietre più piccole. Questo è quanto si fa in tutto il mondo. E in Italia, adesso? Adesso clienti per due miliardi di euro di acquisti negli ultimi quindici anni hanno girato i tacchi e dal negozio se ne sono andati in filiale. Non parlano più con i naturali professionisti dei gioielli. Parlano con impiegati di banca che di diamanti ne sanno tanto quanto un tramviere ne sa dell’Equazione di Schrödinger in fisica quantistica. Cioè un ca..volo. Gioiellieri, avete perso, chi vi ridarà i due miliardi di euro del giro di affari perduto? Le connivenze del ramo bancario Loro, sulla carta hanno vinto poiché incassano una lauta ricompensa che le famose agenzie di intermediazione munificamente garantiscono loro. In cambio possono far uso delle migliaia di sportelli e garantirsi una distribuzione in doppio petto. Gli uffici legali delle banche sono troppo scaltri per firmare i contratti di vendita dei diamanti. Quelli li fanno sottoscrivere a IDB e DPI, le agenzie che tengono il banco, architettano e sviluppano tutto il lavoro. Ma alla lunga che figura ci fanno gli istituti di credito? Incassano soldi per una prestazione di connivenza che ratifica il pompaggio dei prezzi fuori dal mercato. Le banche però ci mettono anche la faccia quando inoculano nelle teste degli ingenui risparmiatori la falsa convinzione di diversificare il portafoglio dei propri investimenti. Provate a vedere se esiste un paese nel mondo occidentale in cui le banche sollecitino l’acquisto (di questo si tratta, non di investimento, come vedremo meglio dopo) di beni materiali per scopi di diversificazione del portafoglio finanziario. Non ne troverete una che venda i diamanti (a prezzi stellari, per aggiunta) come da noi. Quando l’acquirente parlerà con il funzionario che gli negozia fondi e obbligazioni, gli chiederà di render conto del perché il diamante che gli ha suggerito di acquistare non vale neanche la metà di quanto lo ha pagato, quando lo si vuole ricollocare. Una bella prestazione professionale, un chiaro messaggio di riscatto che gli istituti bancari danno ai propri clienti proprio quando sono indagate per aver piazzato prodotti finanziari deteriorati. Aspettate qualche anno e vedrete se questa storia non deprimerà ancora di più la scarsa fiducia che gli italiani hanno del settore bancario. Ma perché gli sportelli bancari devono vendere tutto e fare concorrenza persino alle enoteche? Alla lunga ci avranno guadagnato? La Consob ha vigilato? Questa autorità indipendente italiana si occupa di tutelare gli investitori e vigilare sulla trasparenza e lo sviluppo del mercato finanziario italiano. Nel maggio 2013 ha espresso il suo primo pronunciamento secondo il quale in sostanza i diamanti non possono essere considerati prodotti assoggettabili ad intermediazione finanziaria poiché manca l’incremento di valore del capitale così come il rischio ad esso legato. Consob dice cioè che queste pietre non sono equiparabili ad investimenti finanziari. La precisazione non ha però comportato uno scoraggiamento agli organizzatori del sistema ingannevole. Al contrario, ha offerto un assist. Se i diamanti non sono oggetto di investimento, non devono di conseguenza essere controllati dalle maglie imposte dalla vigilanza Consob. Quelle maglie che avrebbero dovuto impedire (e non lo hanno fatto), del resto, i recenti scandali che hanno immiserito una discreta quantità di piccoli risparmiatori. Il messaggio della Consob dunque era: “Egregi istituti bancari, non potete vendere diamanti spacciandoli per investimento”. Troppo tardi s’è capito che invece i bancari hanno dato ben altra interpretazione all’ammonimento. E cioè: “Egregia Consob, non c’è problema, noi infatti fungiamo solo da mediatori. Le vendite le fanno altri. Per noi si tratta di transazioni commerciali, non di investimenti”. La Consob dovrà alla fine spiegare agli acquirenti, ingannati da un gioco di specchi, che quello che si realizza è un acquisto di gemme senza garanzie reali di recupero del capitale. Né più né meno di come si fa in gioielleria. Mentre i contratti delle agenzie di mediazione, utilizzati in banca, promettevano un investimento, alla fine si concretizzava una pura e semplice vendita. Non pare neanche questa una prestazione acuta, tempestiva e determinante. Non riuscire a salvaguardare i risparmiatori da un meccanismo colpevolmente illusionistico in pratica rappresenta un’altra bella figuraccia. Giornali e media, quei listini erano solo inserzioni Ok, Report ha fatto saltare il muro di silenzio. È il mestiere della Gabanelli e anche questa volta ha fatto centro con un’inchiesta precisa, articolata e attendibile. La maggior parte dei media ha agito semplicemente a traino, riprendendo Report. Niente da dire sul pezzo di qualche giorno fa di Nicola Borzi sul Sole: è incisivo, oggettivo. Elabora i dati dei bilanci delle agenzie che lucrano sulle pratiche opache di vendite di diamanti mascherate da investimenti. E deduce giustamente che i cospicui utili provano che le operazioni sono fuori dai prezzi di mercato. Va benissimo. Provate però a digitare su Google: “Il Sole 24 ore diamanti da investimento”. Sapete qual è il primo articolo che viene evidenziato? Non il puntuale resoconto di fine settembre. Compare invece un pezzo del maggio 2016, assai più compiacente verso le agenzie poi poste sotto i riflettori della Procura e della Consob. Un pezzo dal titolo “Se il piccolo risparmiatore compra diamanti invece dei bond”. In esso si strizza un occhio complice a favore dell’atteggiamento di attenzione che si voleva che i risparmiatori conferissero ad “investimenti” alternativi, cioè proprio i diamanti. In pratica, solo un anno fa, il successo delle collocazioni di diamanti in banca veniva mostrato dal Sole non come una pratica ambigua ed ingannevole, ma come un comprensibile trend sacrosantamente motivato dagli scarsi rendimenti offerti dai prodotti finanziari tradizionali, bond, titoli di Stato etc. Ma non finisce qui. DPI mostra sul proprio sito web i propri salatissimi listini di diamanti e dichiara di averli pubblicati costantemente negli ultimi dieci anni. Dove? Proprio sul Sole 24 ore, lo stesso quotidiano che il 30 settembre finalmente spara ad alzo zero contro gli abusi degli impropri diamanti da investimento. Il prestigioso giornale non ha mancato di far notare che questi listini in effetti non sono altro che inserzioni pubblicitarie. Tali però da costituire un altro piano di ambiguità al multiforme castello di informazioni fuorvianti che hanno consentito di costruire una serie di vendite fuori dai prezzi di mercato. Ok, saranno pure solo pagine di inserzionisti, sarà pure giusto che fanno comodo in un periodo di vacche magre per le entrate pubblicitarie. Ma non è stata proprio una copertura giornalistica lineare ed esemplare. Ci sbagliamo? Consumatori, vere vittime ed i più terribilmente perdenti Beh è alquanto triste menzionare il pubblico dei consumatori solo alla fine. Perché sono quelli che ancora una volta ci rimettono più di tutti. Hanno pagato in quindici anni forse una cifra non lontana dal miliardo di euro in più di quanto avrebbero dovuto se si fossero rivolti a professionisti seri di gioielleria. Ma quello che è peggio è che nei negozi avrebbero avuto la consapevolezza di acquisire oggetti belli e preziosi con gemme che possono essere anche beni rifugio. Invece dalle banche hanno avuto l’illusione di godere gli stessi rendimenti che si ottengono da titoli ed obbligazioni. Per portare a casa solo perdite. E quello che è ancora peggio è che tutta questa storia inciderà drasticamente sulle scelte che orienteranno i consumatori nel prossimo decennio. Le macerie di questo guaio sposteranno le preferenze verso beni di consumo non durevoli, verso la moda più effimera dov'è però i patti sono chiari e non si praticano furbizie e slealtà. Io, Paolo Minieri, commerciante di pietre, dichiaro che i salumieri scompariranno. Saranno i primi, altri li seguiranno. Tranquilli, i gioielli li venderete sempre. Solo che sarete allacciati ad una catena distributiva che penserà per voi. Perderete il sapore delle gemme, l’approccio dei mercanti e un po' d’avventure. Perderete il gusto di scegliervi la mozzarella, ma la COOP non vi deluderà. Il futuro di ogni business consisterà nella logica dei non luoghi della grande distribuzione: portare il ghiaccio agli eschimesi, sacchi di sabbia ai Tuareg del deserto, pizze da infornare già fatte. Migliaia di km inutili per portare bottiglie d’acqua alpina in Calabria, acqua siciliana a Milano. Ma nello stesso momento che questa tendenza si manifesta con l’estinzione dei salumieri, i salumieri stanno già rinascendo, ma diversi. Rimpiango i vecchi salumieri napoletani, anche quelli più mariuoncelli. Sì, ti mettevano un po' di tara in più, ma la mozzarella… se sbagliavano il fornitore della mozzarella, noi non avevamo alcuna pietà. Si andava da altri. Erano costretti a documentarsi, a cercarsi la provola giusta. Dovevano mettere la punta del compasso a Napoli e tracciare il raggio del pianeta dei latticini, l’agro aversano e la piana di Battipaglia. Prima che Barilla ci invadesse, prima che i suoi indisponenti spot facessero credere che erano stati loro a inventare la pasta, mio zio Ciccio pagava fiero il casellante di Castellammare e, in una curiosa 500, scalava le curve per Gragnano. Se ne tornava con tanti di quei pacchi di pasta lavorata con la trafila di rame che le ruote s’abbassavano e in salita doveva ricorrere alla debraiata o doppietta… La resilienza di zio Ciccio indica una possibile resistenza. Se la trafila di rame e la pasta artigianale resistono, resisteranno cannelli, seghetti, crogioli, mole, buratti, smeraldi incisi e corallo. Oggi la grande distribuzione alimentare mi elimina il problema del negozio bollente in estate del vecchio salumiere, l’aria appena mossa dalle pale delle ventole, la fila al banco. L’aria condizionata sostituisce le bizzarre applicazioni di sottili striscioline di plastica sulle porte in funzione anti mosche. Il cloro ed il calcare del rubinetto mi spingono ad accaparrarmi sul Vesuvio acque piemontesi e dolomitiche. Vedo le arance del giardino sotto casa marcire, ma compro agrumi israeliani o brasiliani. Eccola la resilienza. La genuinità e l’autenticità possono farsi brand. La pasta di Gragnano, il più interessante distretto campano, ha performance straordinarie. I piccoli tagliatori di pietre di Jaipur nel Rajasthan erano come i nostri salumieri, i nostri acquedotti, i nostri forni. La nuova divisione del lavoro su scala globale li sta mettendo in un angolo, al margine del business. Ogni volta che ci torno mi bastano pochi minuti e vedo sempre più chiaramente che la concentrazione del grezzo in poche mani potenti (ne parliamo sulla Rivista Italiana di Gemmologia, numero 2) sta mettendo fuori gioco gli outsider. Fino a qualche tempo fa i produttori potevano accedere con limitate risorse agli smeraldi grezzi brasiliani, afgani, pakistani, dello Zambia. Rivoli di materiali affluivano nella Città Rosa, la capitale mondiale dei tagliatori per numero di addetti, di brokers, di artigiani e commercianti. Una volta erano molti di più a tagliare smeraldi a Jaipur. Non dico che si specializzassero in cristalli puri ad occhio nudo di oltre 5 carati. Facevano quello che si poteva, come i macellai. Compravano un pezzo e ci usciva dal primo taglio alla trippa. L’equivalente della trippa negli smeraldi erano i pezzi di berilli con sotto il bianco della calcite, con dentro il nero venoso dello scisto. Nessuna trasparenza, e va beh, chissenefrega. Se ne facevano incisioni curiose, tracciate da solchi simmetrici, curve e collinette. Motivi floreali, strani arabeschi, curve e svolazzi presi un po' dall’Urdu arabizzante dell’impero Mogul. Un mercato disordinato e antico aveva mosche, non aria condizionata. Ma ti trasformava in Marco Polo. Ed ecco di nuovo la via d’uscita, i gem hunters delle TV americane non sono come tanti Marco Polo alla ricerca di unicità, fuori dalla massa? I grezzi del futuro saranno messi in vendita da pochi, potenti gruppi minerari sempre di più in lotti ben assortiti e sostanziosi. Mica è poi così male. Come fa la COOP, i passaggi saranno tracciati e legittimi, gli abusi impediti. Anche tu che mi leggi potrai prenotarti e portarli a tagliare dove più ti conviene. Molto materiale resterà nelle capitali del taglio, ma la filiera sarà cortissima. Tutto si farà per passaggi verticali, dalla miniera all'asta, dal fabbricante al consumatore. La mediazione dei tanti volti, dei tanti ritratti dei broker sparirà. Tutto sarà più fluido, l’intermediazione è orizzontale: non serve più. Il vecchio Johari Bazaar diventerà inutile. A cosa servirà un centro di viuzze congestionate? Le scimmie non precipiteranno più dai terrazzi mentre scelgo gli smeraldi. Faremo tutti più soldi ed in modo sarà più confortevole. Le forze oscure del cambiamento ci narcotizzeranno con il solito refrain del progresso ineluttabile. Ma questo trend pragmatico che ci impone di minimizzare la malinconia o la rabbia, che fa apparire anguste ed impraticabili le strade ed i mondi alternativi, non durerà in eterno. Il cambiamento sarà modificato. Alcune tristezze poco virili non bucano lo schermo e ribellarsi è fuori moda. Ogni sentimento taciuto vale un buono acquisto. I salumieri risorgeranno e venderanno pasta di Gragnano e tormaline Paraiba. Chi non ama l’opale fondamentalmente non lo conosce. Poi quando te ne capita in mano un sasso ti chiedi come hai potuto essere indifferente per tanto tempo. E te ne freghi di chi non ha più sensazioni, pensi a te. Cerchi di distrarti, ti concentri su altro. Ma non c’è niente da fare, lui (o lei?) sta là, perfetto, eterno, nobile. Irradia una bellezza così diffusa, inspiegabile che ti pare irraggiungibile. Ok ti amo, facciamola finita. E tu ti prenderai gioco di me e della mia fragilità. Allora ti amerò di nascosto. No, te lo dico. Ecco gliel’ho detto. Ma a chi? Al rosso porpora, al verde carioca, al blu sottile, alle lingue gialle e turchine, a tutto l’iride? A chi sto parlando? Schegge. Mi restano i frammenti del discorso d’amore di Barthes, perché io non so a chi sto parlando. Lo guardo e mi scompongo in cose che per comodità devo definire contraddittorie. Per non allarmarvi. Questo agglomerato amorfo, sereno ed immobile, scuote la mia perplessa persona con le citazioni dei maestri del pensiero francese e poi mi risucchia vigorosamente sottoterra, in una culla primordiale silenziosa, inconscia. Dove non esiste più la parola o la ragione. L’opale del tuo innamoramento ti scaraventa verso un sé bambino (o bambina?), un essere perfetto e infantile che sta oltre e prima. Nella scomposizione dell’acqua. Da un rubino, da un'acquamarina ti aspetti un ristretto spettro cromatico. Lo speri, faccetti e lo ottieni (forse). L’opale grezzo ha questo della follia amorosa: un’identità inafferrabile. Non sai cosa può diventare. Ma una cosa già la sai. Non sarà di un solo colore, non sarà lo stesso se lo ruoti leggermente tra le dita. Quindi devo innamorarmi per necessità, per scardinarmi dalla ragione, per consentire l’aldilà. Per tenermi tutto, per non uccidere sezionando con catene logiche. Ecco, sono pazzo. Non mi scompongo. Anzi mi scompongo. Nell’innamoramento ci sta. Mettetevi tranquilli, poi diventerò normale e sarò ancora come voi. Allaccerò la cintura, stringerò il cinturino, programmerò la sveglia, avviterò in senso orario. E in queste condizioni febbrili, io che non so più come mi chiamo, taglierò l’opale. lo dico subito. Non sarò geometrico, lo so già. Perché non ho interesse in forme specifiche e servizievoli. Ho deciso di andare verso il gioco di colore. E ci andrò. Lavorare l’opale etiope è assai più emozionante. In genere si ha immediato accesso ad un forte gioco di colore, rispetto all’australiano che per fare queste cose costava troppo. Cominciamo a valutare il pezzo prima ancora di toccarlo. È già bello. Mi viene in mente di fare una cosa incredibile ma non del tutto insensata. Andarmene. Lasciare questi sassi, già parlanti, a loro stessi, lasciarli inalterati. Baudelaire lo avrebbe fatto. Prendo il primo grezzo, lo metto da parte, lo guardo e me ne vado. Non lo toccheremo. È perfetto. Poi torno quasi subito. Che bello, trasmetto agitazione e scompiglio. Il nulla è la condizione perfetta. Ma quando mai… Dobbiamo vivere, osare, dobbiamo tagliare. La ruota morde un altro pezzo, quello di prima l’ho lasciato lì. Stiamo rimuovendo il boulder, la corteccia sabbiosa. Ogni secondo è scandito da nuovi colori che si affacciano dal balcone di rocce. Prima arriva Raffaele Viviani (vedarrisse riflesse e scintille, mo rosse, mo verde, mo lilla, mo gialle.) Beh, inevitabile, adesso appare il fantasma di Michele Macrì, il mio amico professore, scienziato della terra ma fondamentalmente teorico dei tagli anticonformisti. Il fantasma si accomoda, poggia un gomito sul banchetto. Sospira e ammonisce: “Non andare oltre, devi lasciarlo così”… Solo un altro paio di colpetti, diciamo noi. Il fantasma si alza lentamente. È deciso. “Adesso staccherò il quadro elettrico”. No! Si squaglieranno i ghiaccioli in frigo! Non siamo più soli. In poco tempo il laboratorio si riempie di numerosi spettri di poeti, musicisti e tagliatori, esperti e rissosi. Chi ci urla di andare verso il giallo, chi verso un certo tipo di blu tonale, chi dimostra impettito sulla lavagna che dobbiamo fare una goccia regolare, chi calcola, chi canta, chi schizza. Nella ressa si insinuano anche zelanti sciamani uzbeki o turcomanni, adoratori dell’opale. Poi il buio. “ Ragiona, è meglio fermarsi, non tagliare oltre. Così è perfetto”. Michele ha davvero staccato la corrente. Prendete i ghiaccioli, prima che si sciolgano e diventino acqua, come i miei pensieri sull’opale. Sono abituato ad espormi per le mie idee. E sono pure abituato ad accettare le conseguenze dello scompiglio inevitabile che proviene dalla torrenzialità dei miei progetti. Ma la cosa che più mi colpisce non sono gli ostacoli che trovo da sempre, ma (cosa che più mi diverte) la facilità con cui le cose poi trovino uno sviluppo ordinato e fluido. Come per incanto le persone collaborano con rispetto, costruttività, affabilità. E tutto si aggiusta. Che è successo? Ho voluto fare un meeting gemmologico il 14 giugno 2017. Ed è andato molto bene. Molte persone e molte cose hanno contribuito all'organizzazione e si sono un po' magicamente unite in una sequenza armoniosa che compensa e ripaga. Provo a ricostruire. Perché sono affiorati molti temi per il futuro della nostra categoria. Tema 1. Il Polo Orafo Campano non è solo il Tarì. Forse si può fare rete Avendo dovuto constatare che non è sempre vero che se bussi ti verrà aperto (le porte che fanno slam, quando ti colpiscono sul muso, ti rendono simile ad un cagnolino pechinese, più convinto ancora del dialogo) avevo pensato di tornarmene a Napoli presso la cara vecchia sala del Museo di Mineralogia. Poi mi sono detto: "Ma perché devo autocensurarmi ed autorinchiudermi in un Museo?". Così mi è tornato in mente che secondo la Regione Campania esistono più location adatte per vocazione a fare rete d'imprese orafe. Ho riletto il paragrafo: "le reti d'impresa devono accompagnare e sostenere progetti che, andando oltre i limiti dei distretti, mirino alla costruzione di rapporti duraturi tra sistemi che, pur se localizzati in contesti territoriali differenti, abbiano caratteri similari o complementari dal punto di vista produttivo e dei processi innovativi". Traduzione: in Campania si possono fare cose di gioielleria, gemmologia etc., oltre che al Tarì, anche preso Oromare, Napoli (Borgo Orefici), Torre del Greco. Tema 2. Gente che non era mai venuta in un Centro, con questi incontri ci viene Oromare ci ha accolto, vecchi amici sono venuti a vedere. Beh ci metteremo a contare nei prossimi giorni. Gli iscritti erano circa 180 ma credo che con i last minute e con i residenti abbiamo toccato un picco di circa 200. Volete sapere che penso? Non me ne frega niente del numero. Sarebbero bastate 20 o 30 persone, perché il 14 giugno noi tutto assieme abbiamo studiato. Non abbiamo fatto proclami, pontificato, elargito, celebrato, ringraziato etc. Il commento più frequente che ho sentito: "Ma lo sai che non c'ero mai entrato qua dentro?". Ed erano napoletani. Niente ci è dovuto. Se non facciamo lo show up, se non mostriamo le cose nuove, i centri restano cattedrali nel deserto. Tema 3. Diamanti sintetici. Curare una nevrosi che conviene solo alle banche Non è il primo incontro sui diamanti sintetici. Tanti gemmologi più in gamba di noi ne parlano. Ma io ho scoperto che su questo tema bisogna restare vicini agli operatori, giorno dopo giorno. Esattamente quello che fa Francesco Sequino: aggiornando sui trattamenti e sull'identificazione, cura una vera nevrosi che affligge il settore. Non basta una sola seduta di un luminare che ti inonda di spettri. Devi colloquiare e tranquillizzare: li possiamo identificare 'sti diamanti, non ce li facciamo scippare dalle banche. Tema 4. Igi Alumni. Siamo rimasti ai campanili e nel mondo si vola. Qui mi scappa da ridere. Diffidenza, pigrizia, chiusura, ristrettezza, sospetto, sfiducia, conformismo etc. regnano sovrani tra i vetusti campanili dietro casa mia. Prohibido, verboten, forbidden, interdit. Allora ho preso il telefono, in un impeto di protagonismo decisionista. Mi vedevo ridicolmente specchiato mentre lucidavo la targhetta della mia carica nientedimeno che di Presidente di Gemtech (la cosa più piccola del mondo). Ho parlato con Roland Loriè, il capo dell'IGI (International Gemological Institute, una delle cose gemmologiche più grandi al mondo). Tecnicamente mi sarei potuto aspettare un'altra porta sul muso pechinese. Invece... Sarà la stima reciproca, sarà la fantasia o la pazzia. Ha preso l'aereo ed è volato qui a Piazza San Domenico Maggiore. È nata in pochi minuti l'Associazione International Gemological Institute Italy. A Marcianise l'abbiamo presentata ed entro il 2018 sarà presente in 5 distretti italiani. Un luogo di incontri, di aggiornamento, di proposte, di aggregazione in cui i gemmologi e gli appassionati di tutte le scuole possono far valere seriamente le proprie credenziali. Partendo da qui. Tema 5. La Rivista Italiana di Gemmologia. Il mondo vuole sapere chi siamo e qualcuno costruisce ancora bandi, prescrizioni e muri. Ma vi rendete conto di quanto io scriva? I don't know how to stop. Se siete arrivati a leggermi fin qui (sarete sicuramente uno sparuto gruppo di sfaccendati con cuore così grande da sopportarmi) varrà la pena concludere. Con Alberto Scarani scrivevo nei tempi eroici degli inizi di Preziosa Magazine, per incoraggiamento di un altro visionario che ci aveva visto giusto, il Direttore Micera. Tutti più o meno leggevamo Michele Macrì e la sua Rivista che però cessò di esistere. A completare il gruppo ci ha pensato Sergio Sorrentino che ha creato un progetto editoriale. Dal 14 giugno, meeting di Marcianise, la nostra Rivista Italiana di Gemmologia ė anche in inglese. Perché? Perché chi non legge in italiano c'è l'ha chiesta a Tucson, Bangkok, Jaipur, New York. Non è male se consideriamo che abbiamo fatto tutto noi, tra Napoli e Roma. Abbiamo un giornale gemmologico fatto a Marcianise e letto in tutto il mondo. Nisida è un'isola e nessuno lo sa. Che sorpresa, diciamocelo, perché la nostra Rivista può essere anche un po' pallosa. C'è un sacco di roba scritta, roba approfondita, poche foto, molti spettri. Non sarà mica che bisogna insistere sulle cose che non sappiamo piuttosto che gratificarci con quello che già si sa? Tema 6. La formazione significa ascoltare i ragazzi, non altri. I ragazzi (e le loro famiglie) fanno sacrifici per accreditarsi tra i gemmologi o tra i possessori di titoli in gemmologia. Il 14 giugno è stato il loro giorno. Tutto il resto potrebbe essere dimenticato. Questo no. NIHIL MIHI SED SEMPER PATRIAE. Inizia tutto con Platone e con il suo principio di non contraddizione. Cioè, se concentrate il vostro sguardo sullo Smart Phone, noterete che esso, essendo uno Smart Phone, non può essere contemporaneamente un altro oggetto. In pratica non può essere un gatto, una bottiglia di Vodka o un antidolorifico. Sui libri del liceo sorridevamo per tanta banalità: è tutta qui la filosofia? E invece quel principio spiega, tra tante cose, anche il meccanismo della paura. Sapendo che il destino del mio Smart Phone è di rimanere tale, poiché non può essere contemporaneamente una cartella di Equitalia, io stabilisco un controllo razionale sul mio mondo. E non resterò terrorizzato dalle infinite minacce delle modificazioni - che so impossibili - del mio telefonino, il quale resta identico a sé stesso. Sono tranquillo, invio messaggi, gli faccio fare cose da telefono. Non mi aspetterò dunque da quest'oggetto ordini perentori di pagamenti erariali. Questo vale anche per i diamanti. Il gioielliere, come tutti gli individui della nostra società basata su principi razionali, desidera esercitare un controllo sul suo mondo e ciò comporta la necessità che le pietre che conosce per esperienza come preziose e naturali mantengano stabilmente questo status. Non vuole che il suo trilogy sia altro da quello che il suo cliente comprerà nella totale certezza che i diamanti siano naturali. I diamanti sintetici hanno intaccato negli operatori la sicurezza derivante dal principio di non contraddittorietà. È come se un demone fosse disceso nel reticolo cristallino creando un mondo parallelo: è un diamante che al tempo stesso non lo è. Vi ricordate il mondo allucinato di Blade Runner? Il mondo piovigginoso e multietnico in cui Harrison Ford deve dare la caccia agli androidi? Qualcuno ha precipitato i nostri gioiellieri laggiù, dove solo un test identifica queste pericolose copie degli umani, in grado di sovvertire la legge di non contraddittorietà. Oggi dunque un diamante può essere altra cosa, diversa da sé? Certo che sì, come i perfetti androidi di Blade Runner. Ma non può essere simultaneamente naturale e sintetico. Quando abbiamo tra le mani un diamante sintetico, seppure le caratteristiche chimiche e fisiche possano essere per molti versi identiche a quello naturale, abbiamo a che fare con un oggetto che è e resta un diamante sintetico. C'è solo da eseguire il test, esattamente come faceva Harrison Ford. Ecco allora quello che succede. Le banche fanno firmare moduli e mostrano certificati. Rassicurano il cliente, delegano la responsabilità e vendono diamanti di cui non sanno nulla. I gioiellieri, che dovrebbero saperne tanto, vendono sempre meno diamanti poiché non sanno più rassicurare il consumatore, dubitano dei certificati, temono le conseguenze delle proprie responsabilità. Il pubblico, tra banche, ambiguità ed insicurezza dei gioiellieri si domanda che diavolo sta succedendo. E alla fine, se poi vede uno Smart Phone che si connette, resta identico a sé, si capisce cos'è, lo acquista al posto di un diamante. Ma in fondo uscire da questo incubo sarebbe molto semplice. Perché la vulgata che si sta diffondendo, che cioè i diamanti sintetici siano indistinguibili da quelli naturali, è una grande, colossale balla. Questa è una scusa che conviene solo a chi ha vantaggio a livellare la qualificazione verso il basso. Vero è, invece, che i progressi tecnici nel produrre sintetici e l'abbassamento dei loro costi sono stati fattori più rapidi dell'avanzamento delle conoscenze disponibili agli addetti ai lavori. I gioiellieri non ce la fanno a restare al passo delle nuove situazioni. L'assenza o la precarietà delle informazioni smargina, annebbia ai loro occhi i confini tra naturale e sintetico. Ed il diamante, contraddicendo in apparenza sé stesso, li cala in un abisso irrazionale e oscurantista. In basso scorgono le nebbie e le insicurezze che avanzano se si permane nella condizione di non conoscere. In alto la lunga e faticosa scala da percorrere, l'inevitabile lavoro di studio, aggiornamento, approfondimento, se si vuole invece sapere. Se il diamante io lo riconosco, o se solo so che questi strumenti e queste procedure hanno la fondatezza per fissare un protocollo per riconoscerlo, ecco che non c'è incertezza ed il mio bel diamante naturale me lo posso dunque vendere senza paura. Il consumatore percepisce distintamente lo smarrimento, il timore, l'insicurezza da parte di chi dovrebbe guidarlo a compiere un acquisto impegnativo. Ecco allora una lista di atteggiamenti di lavoro scorretti e controproducenti che si potrebbero rivedere, perché evidenziano il disagio dell'operatore e lo pongono in condizioni negative per vendere più diamanti naturali, e con più soddisfazione. Luogo comune 1. "Va beh, tanto è tutto trattato". Sbagliato. I vostri clienti pretendono di acquisire diamanti di un valore commisurato al danaro che chiedete. Se dite che tanto fanno tutti così sperate di essere salvati dal conformismo, non state vendendo pietre. State solo trasferendo le vostre incertezze a chi, magari, ne potrebbe anche sapere più di voi. E poi i sintetici non sono trattati, sono simulanti. Luogo comune 2. "Mi hanno detto che è naturale. Quest'azienda non mentirebbe mai". E perché? Chi lo dice? Sapete controllare esattamente la professionalità e le competenze gemmologiche delle aziende che vi forniscono gioielleria? Valutate correttamente le dimensioni, il prestigio o le qualifiche di chi vi vende le pietre? Vi informate sulle referenze tecniche? Luogo comune 3. "In fondo poi che può accadere? Io l'ho comprata da..., la responsabilità è sua". Sbagliato. Siete obbligati a rispondere in prima persona, ripassatevi il Codice Civile. Dipende tutto da chi è il cliente, da quante risorse vuole metterci per trascinarvi in giudizio. E se poi lo fa sono fatti vostri. Luogo comune 4. "Ci ho visto inclusioni, ho fatto il test " E come, col lentino a 10x? I diamanti sintetici hanno residui metallici. E poi quale test, quello della moissanite? Spettrometria ad infrarosso e valutazione delle emissioni della fotoluminescenza sono oggi le frontiere per contrastare con successo anche il tanto temuto CVD nel melee. D'accordo, non tutti possono disporre di strumentazioni tanto avanzate. Ma tutti possono aggiornarsi sul loro funzionamento e valutarne l'efficacia. Non è la fine del mondo, bisogna andare a letto presto e fare bene i compiti a casa. Il gemmologo ed il gioielliere potrebbero essere uomini più liberi e consapevoli degli altri.28/4/2017 Lassù qualcuno (Dio, Manitù, Giove, Odino, Allah?) ci ama. Tanta gente non trova un lavoro o ne fa di noiosi mentre a noi questo Nume ha riservato un posto di favore. Quale sorte migliore di toccare tutti i giorni oggetti desiderati da donne e uomini, eleganti e seducenti, fatti di materiali naturali, oro e gemme? Chi lavora con i gioielli non dovrebbe considerarsi un prestatore d'opera qualunque. È un tipo d'uomo costretto a concepire la più potente e primitiva astrazione di un pensiero libero: la bellezza. Deve ragionare su collane e bracciali, concentrati di abilità tecnica, gusto, creatività. Messaggi che recano pensieri. Arte? E perché no? Sono sculture indossabili. E questo concetto vale sempre, anche oggi, in un epoca dove la manualità del pensatore nudo (cioè immune da pregiudizi, condizionamenti) è assistita da stupefacenti supporti tecnologici. 3D? Informatica e meccanizzazione non esistono se non ti fai un'idea tua di bellezza. Il gemmologo? Apre la sua valigetta per accertare le caratteristiche delle pietre. La esplora basandosi su più strumentazioni. Microscopio, rifrattometro, polariscopio, bilancia idrostatica, spettroscopio. Se può permettersele, usa tecniche più avanzate. Guarda dalla tavola, guarda dal padiglione. Non si accontenta di un solo dato: riscontra, controlla, ricalcola. Un artigiano o un gioielliere rigirano il pezzo tra le mani. Lo vedono da dietro, nei piccoli dettagli. Ogni volta si interrogano se non si poteva fare di meglio. Considerano le proporzioni con rigore classico oppure superano il conformismo con ardore eccentrico. Confrontano, giudicano, misurano. Gemmologi e gioiellieri possono trasferire questi propri metodi dal lavoro alla società. Possono affrontare la vita, in genere, analizzando le cose alla ricerca di qualcosa di bello e verificandone l'autenticità. Il conforto di questa meticolosità d'indagini, eseguita da più visuali rende la loro professione una palestra di libertà. Le pietre esprimono riflessioni, ritorni di luce sempre diversi a seconda delle faccette che mettiamo in primo piano. Bisogna guardare tutto insieme. L'interpretazione della realtà che ci circonda non richiede forse che si prendano in considerazione più faccette, più angolature? Non sarebbe utile comportarsi con la cautela dei gemmologi quando dobbiamo discernere fake news da giornalismo documentato oppure scegliere panini bio, pomodori con più livelli di manipolazione, candidati con o senza abilità, leader più o meno inclini a bombardamenti? Amici gioiellieri, un negozio anche piccolo può essere gigantesco se contiene una grande personalità, una grande predisposizione ad essere presidio di cultura, di gusto, di libertà. Un presidio contro la piattezza obbediente di chi sbarca grandi stipendi passando solo carte altrui. Un presidio contro il veleno dell'approssimazione, contro l'informazione ridotta a passerella pubblicitaria, contro la massificazione arrogante della grande distribuzione, contro il cancro dell'indifferenza causata dalla scomparsa del pensiero critico. Mio padre si sfregava le perle sui denti. Una sensazione rasposa gli indicava l’origine. Carbonato di calcio, coltivate. Sistemi rudimentali ma efficaci che gli venivano direttamente da Plinio. Tante cose nel mondo della mia infanzia venivano da un passato lontano. Le nostre mamme (ormai una vita fa) ispezionavano a colpo d’occhio la freschezza degli alimenti al mercato. Usavano mille espedienti per testarne empiricamente la qualità. E a casa forse non si mangiava bene? Provate a chiedere oggi dettagli tecnici su una Smart TV all'incaricato alle vendite in un megastore: sbufferà irritato. Oggi c’è un solco tra chi produce e chi compra, tra chi parla e chi ascolta. Chi acquista è in corsa frenetica. Chi vende spesso non sa molto di ciò che vende. Non vuole sapere molto di più o, peggio, crede di saperne abbastanza. Vedo, nella pratica del mio lavoro, esaurire la comunicazione in un laconico carteggio unidirezionale. Un amico gioielliere mi racconta: “Quando venivano a comprare un gioiello si trattenevano ore ed ore. Mio padre officiava un rito di amore per le donne che avrebbero ricevuto il dono”. Tempi che cambiano. Magari sarebbero ancora gradite più informazioni circa le caratteristiche delle pietre preziose e dei gioielli. Ma, senza l'arte affabulatoria del padre del mio amico, poi alla fine si taglia corto: “Dammi un certificato, scrivi un report, dichiarami qualcosa di scritto da far vedere in negozio”. Insomma, un po’ di carta per accontentare i rivenditori a tacitare i consumatori. E per lavarsene le mani. È vero, oggi le cose me le spiega la rete. Forse questo vale per le Smart TV, ma i gioielli chi me li spiega? E come? Li avete visti anche voi quegli eccentrici, goffi e autoreferenziali fogliettini (che vengono chiamati “garanzie”) recanti approssimative rassicurazioni del produttore? L’origine artigianale del gioiello, il peso delle pietre? Ce lo scrivono a mano su un bigliettino. Il gioiello viene presentato per mezzo di una sorta di ingenuo raptus certificatorio in salsa marketing “fai da te”. No, queste che leggete non sono le parole di un nostalgico dei bei tempi andati (tipo: tutto era semplice e spontaneo, c’era tanto lavoro, l’Italia era leader del gioiello, si mangiava bene e ce volevamo tanto bene). So bene che il mondo dei negozi e dei quartieri artigiani si è contratto ai limiti dell'estinzione. E se c'era chi raccontava bene la storia di un gioiello, pure c'era - come sempre - chi, non sapendolo fare, diceva cose inconsistenti, approssimative, banali. Eppure si argomentava, si rispondeva. Oggi molti gioiellieri lasciano che a spiegare pietre ed oggetti siano le dichiarazioni fredde contenute nelle belle confezioni dei brand. Basta il nome, basta il certificato. Più che soddisfare la curiosità del pubblico, mi pare che lo si voglia piuttosto zittire, con supponenza più che con documentata autorevolezza. Ma un bel certificato serio, mettiamo d’un diamante, non zittisce un bel niente, semmai stimola la riflessione, provoca dibattito e comparazioni, induce ad approfondimenti. L’analista rileva titolo e capitoli di quell’avvincente racconto che ogni gemma proietterebbe sullo schermo se avesse avuto la possibilità di montare video. Ma in questa sintesi estrema si portano freddamente agli occhi del consumatore solo alcuni numeri e qualche giudizio. Dove finisce tutto il resto? Perché non si commentano i certificati? E invece io amavo quei professori di biologia del liceo che dalla chimica del DNA arrivavano a parlare della vita; dai numeri freddi ti scaraventavano nell'esperienza di ogni giorno. Amavo parlare e amavo che mi si parlasse. Ma questa è poesia, diciamolo chiaramente. Il fatto è che oggi non abbiamo tanto interesse a raccontare o ascoltare storie. Abbiamo appaltato i racconti alle agenzie di marketing. E senza più riferimenti dubitiamo di tutto. La nostra vita quotidiana è spesso costituita da esperienze non autentiche, circondata da doppiogiochismo, opportunismo, machiavellismo. Cartelle pazze? O devo pagare? Non siamo sicuri di cosa diavolo pensi il nostro vicino, il nostro collega, il nostro familiare; la TV celebra una sorta di vita parallela, i reality sono irreali e passiamo ore a guardare dei cuochi aspirando dal cellofan i pop corn. I politici possono serenamente negare quanto dichiarato la sera precedente. Siamo angosciati dalla quantità di espedienti messi in atto dalla società in cui viviamo in continua deroga ai principi morali, all’onestà, alla trasparenza, alle virtù. E scivoliamo nel cinismo perché stentiamo a concedere ancora la nostra fiducia. Con tante maschere non abbiamo più modo di riscontrare le facce vere. Ed ecco che scattano gli anticorpi. Se sono me stesso, se uso parole mie voi continuate a dubitare? Ed allora io certifico. Se tutto è indistinto creiamo autorità riconosciute che garantiscano l'autenticità. E’ un riflesso condizionato che ci induce ad appaltare la veridicità non solo dei preziosi ma di tutti gli aspetti della nostra esperienza quotidiana (cibo biologico, cicli produttivi, sicurezza sul lavoro, impatto ambientale, smaltimento rifiuti e mille altri prodotti e servizi). Non possiamo più ricavare esperienze dirette dalla nostra vita di tutti i giorni. Non ci troviamo più in un insieme di tante certezze dalle quali si debbono isolare pochi truffaldini. Ci troviamo in un reticolo indistinto di tanti presunti falsi dai quali differenziarci con certificati, dichiarazioni, attestati di garanzia. Sappiamo ancora parlare senza carte? |
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Settembre 2019
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