Il gioielliere è socialmente accettabile? Al ginnasio, ormai una vita fa, mi chiesero per non so più quale questionario, quale fosse l'occupazione di mio padre. Che dovevo dire? Orafo? Gioielliere? Commerciante di pietre? Era un po' di tutto questo. Ma quale descrizione sarebbe stata socialmente più accettabile? Il liceo classico dopo tutto, ancora ai miei tempi, formava per antica tradizione i quadri della classe dirigente. E in classe mia figurava tra gli altri il figlio di un macellaio. Chi eravamo? Era un avviso che sarebbe stato meglio aspirare ad altre professioni? Quale apporto avrebbero dato gli studi classici all'esercizio di un mestiere legato ai gioielli? Nel salotto buono della rinascente borghesia napoletana del vecchio millennio commercianti ed artigiani non erano accolti con straripante simpatia. La tua identità è anche costituita da come la società considera la tua professione. Erano state prosciugate dalla riforma agraria le antiche rendite fondiarie. La vecchia aristocrazia non era più al centro della cabina di comando. Per contare nel cerchio magico di un'imperfetta borghesia in fase di lancio era semmai più raccomandabile accompagnarsi ad i possessori di una laurea. I grandi costruttori che allagavano i confini edilizi della città trovato conveniente allearsi agli ingegneri. Gli uomini d'affari che investivano, ad esempio, in cliniche avrebbero fatto società con i medici. E questi sarebbero stati poi benedetti dai grandi fiumi di danaro pubblico che di lì a poco avrebbero fertilizzato il ramo sanitario pubblico, il più spendaccione dell'intera Repubblica. No, negli ultimi decenni del secolo, per una scalata sociale, lavorare con i gioielli a Napoli (ma non solo) non era l'opzione più gettonata. Avvocati, architetti, specialisti di scienze politiche, statistiche, giuridiche ed amministrative, esperti di studi sociali ed umanistici hanno fatto rapide carriere a partire dagli anni della ricostruzione. Erano incubati nel grande apparato statale e regionale spesso nella funzione di clientes. Politici influenti nel disporre munificamente le tante assunzioni li collocavano tra i rigogliosi organici da completare. Tutti aspiranti al rango di classe media benestante, i nuovi professionisti erano in navigazione verso la conferma o la conquista di uno status. Verso un nuovo mondo più organizzato, più giusto, più emancipato. Gioiellieri. Componenti di un ceto mercantile in decadenza? Le professioni liberali o i professionisti di quel nascente, ubertoso impiego pubblico consideravano i commercianti, anche quelli facoltosi, un po' come ospiti illegittimi nel panorama dei gruppi sociali emergenti. Per quanto fossero efficienti ed influenti non potevano aspirare a rappresentare un pensiero moderno ed intellettualmente avanzato. Le facoltà universitarie proponevano modelli teorici più raffinati, una ripartizione del lavoro con un terziario più avanzato del vecchio commercio al dettaglio. La tecnologia dei materiali rendeva i vecchi processi artigianali obsoleti. E i gioiellieri dunque sono stati catalogati come parte di un ceto mercantile/artigiano decadente. Destinati ad essere soppiantati dai modelli incontrastabilmente vincenti della grande distribuzione. Non mancano eccezioni, come è giusto che sia. Il commercio presenta varie realtà. Ma resta il dato che il gioielliere del Corso non aveva e non ha lo status, mettiamo, del farmacista del negozio che gli sta a fianco. Ai consumatori in generale è stato inoculata una certa diffidenza verso oggetti che hanno la natura voluttuaria del gioiello e degli altri beni dell'estetica. E per contrasto il farmaco appare invece avvolto in un'area di indispensabilità e di utilità sociale. Il valore di un gioiello (e di un gioielliere) lo si mette più agevolmente in discussione mentre una medicina ha un costo che pare discendere da un listino insindacabile e celeste. Non me ne vogliano i bravissimi amici farmacisti ma il camice bianco incute rispetto ed imbarazza: non vende (vendere? Un operazione un po' plebea). No lui dispensa, eroga beni necessari. Ma il vero valore del gioiello italiano è il suo contribuito al PIL. Siamo sinceri: una bella parte di quei professionisti schizzinosi dei salotti ha fatto cilecca. Il paese reale nell'ultimo quarantennio ha sconfessato la pretesa che il PIL italiano progredisse per l'efficacia modernizzatrice della macchina amministrativa che ha prodotto modesti risultati. Allo stesso modo sono stati deludenti le performance di molti manager di potenti gruppi della grande industria, privata o pubblica. La spina dorsale che ci ha sostenuto consiste invece di PMI: un miracolo nostrano di piccoli e medi imprenditori che hanno saputo fare bene (e da soli) un'eccellente sintesi tra tecnologia, industria e conoscenze artigiane. Un mondo fatto da persone pratiche e capaci con in testa meno teoria ma più flessibilità e fantasia. I protagonisti della produzione e della distribuzione orafa italiana stanno in questo contesto. Tra questi figurano personalità di rilievo che hanno proiettato l'industria e la distribuzione del nostro prodotto orafo tra i grandi protagonisti della scena mondiale. Insieme ad una vasta platea di operatori che hanno ravvivato brillantemente il dettaglio del gioiello contribuendo, anche nel loro piccolo, a ramificare l'offerta di creatività esclusiva anche negli angoli più remoti del territorio. Insomma chi è il gioielliere? In una società in trasformazione è considerato poco moderno anche se genera ancora occupazione e reddito e soprattutto contribuisce significativamente a dare senso ad una virtù riconosciuta nel mondo: il senso italiano dell'eleganza e del design. Una feroce sequenza di luoghi comuni impazza tra i media e descrive gli orafi in modo scorretto. Ma su questo varrà spendere un altro blog. Paolo Minieri |
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Settembre 2019
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