Non è la prima volta che per analisi al nostro laboratorio vengono sottoposti diamanti che risultano essere di origine sintetica. Durante la scorsa Fiera di Ottobre Tarì Mondo Prezioso diversi lotti di diamanti mêlée proposti agli operatori hanno destato sospetti e ci sono stati sottoposti per una verifica. Alcuni di questi lotti si presentavano alquanto omogenei e di bel colore ma si sono rivelati ad una più accurata ispezione per circa il 20/25% di natura sintetica. Più recentemente ci sono state consegnate per analisi gemmologica due pietre che hanno rivelato le seguenti caratteristiche:
![]() Abbiamo proceduto dunque ad un’analisi preliminare con il diamond spotter™ SSEF. Entrambe risultavano trasparenti ai raggi UV ad onde corte. Successivamente al microscopio si sono notate per entrambe le pietre inclusioni metalliche, molto più complesse da identificare nella pietra di carati 0,82. Il campione da 0,77 ct ha presentato un’attrazione più marcata al magnete al neodimio rivelando le proprietà ferromagnetiche delle inclusioni e, di conseguenza l’origine sintetica delle pietre, specificatamente ottenute con metodo alta pressione/alta temperatura. Per completezza di indagine le due gemme sono state poi sottoposte ad ulteriore esame spettrofotometrico utilizzando tre strumenti prodotti dalla Magi Gemological Instruments, il GemmoSphere, GemmoRaman e GemmoFTIR, i quali hanno ribadito in certezze i dubbi accumulati in precedenza: diamanti sintetici HPHT. Seguono foto inclusioni metalliche e spettri. L'osservazione di un'inclusione opaca a campo scuro, insieme ad una più attenta indagine con utilizzo di illuminazione a fibre ottiche determina se l'inclusione è costituita da un fondente metallico. La lucentezza riflettente e metallica delle inclusioni è diagnostica per determinare l'origine sintetica del diamante. Puoi scaricare questo articolo anche in versione PDF. ![]()
di Richard W. Hughes & John L. Emmett. Caccia al riscaldamento. Una delle più grandi sfide che il ramo commerciale delle pietre ed i gemmologi affrontano oggi è rappresentata dalla capacità di determinare con accuratezza se una gemma sia stata trattata mediante riscaldamento. A questa domanda una risposta attendibile al 100% spetta ai più grandi laboratori gemmologici, ma uno strumento semplice ed economico è già capace di fornire importanti indicazioni. Dunque, qual è questo strumento miracoloso? Stiamo parlando della semplice luce ultravioletta. Non è passato tanto tempo da quando la fluorescenza ultravioletta (UV) era considerata il parente povero adottato nel laboratorio di gemmologia, una cerbottana a forma di brocca quando la si paragona ai grandi calibri dei cannoni a disposizione dei laboratori moderni. Ma, con la crescente importanza del riconoscimento dei trattamenti, l’umile lampada UV sta facendo la sua ricomparsa. Reattiva. Molti zaffiri e rubini trattati per riscaldamento mostreranno una fluorescenza UVC gessosa. Questa reazione, che non si trova praticamente mai in corindoni non trattati, fu per la prima volta notata da Crowningshield (1966, 1970). Ad emettere fluorescenza (reazione simile a quella degli zaffiri sintetici Verneuil) sono di fatto le porzioni incolori della pietra. Poiché le aree incolori seguono la struttura di crescita originaria del cristallo, la fluorescenza seguirà lo stesso pattern di zonatura di colore della gemma. Oltre a ciò altri elementi in traccia nei corindoni possono produrre reazioni di fluorescenza dal ben conosciuto bagliore rosso del rubino ad altre reazioni che non sono ancora completamente conosciute. Molte di queste - conosciute o meno - sono illustrate qui. Mostrare e spiegare. Come si fa dunque a verificare questa reazione? Il primo passo consiste nel procurarsi una lampada che offra in combinazione onde lunghe e corte (UVL, UVC). Si renderà necessario anche un paio di occhiali protettivi (le onde corte possono danneggiare la vista se ci si espone troppo a lungo). Un box per la visione è un aiuto aggiuntivo. Ed infine ci sarà bisogno di una piccola lente per ingrandire la pietra. Le figure 6-8 mostrano un allestimento adatto sia per osservare la fluorescenza che per fotografarla. Il concetto consiste, quando si osserva la fluorescenza, nel reggere la pietra con la pinzetta portandola il più vicino possibile alla lampada per vederla sotto ingrandimento. La pietra si esamina da tutti gli angoli: molte volte le aree chiave opache sono confinate a minute porzioni della pietra. Uno degli autori (Hughes 1997) ha suggerito di incorporare una lente al box per la visione ma purtroppo i produttori di strumentazioni non hanno ancora realizzato questo prodotto. Avvertimenti. Questo test richiede qualche conoscenza. Se un rubino mostra una fluorescenza opaca alle onde corte è probabilmente trattato per riscaldamento. Se è inerte non vuol dire che non é stato riscaldato. Bisogna far attenzione che la pietra sia pulita. Anche sapone ed altri detergenti sono in grado di produrre fluorescenza opaca. Questo test, seppure sia uno strumento che può essere estremamente utile, non può sostituirsi ad un esame gemmologico in un laboratorio con strumentazione completa. Per concludere, mantenete al minimo i tempi di esposizione del corindone alla lampada. L’irraggiamento UVC crea un centro di colore giallo che altera il colore della gemma: possono bastare anche solo cinque minuti di esposizione (vedi la figura 9). Se da un lato questo colore sbiadisce con una lunga esposizione alla luce solare dall’altro può rendere più verdastra una pietra blu (cosa non buona se la pietra è vostra e state cercando di venderla). ![]() Figura 9 - Prima e dopo l’irraggiamento. A sinistra uno zaffiro blu in un anello, a destra la stessa pietra dopo pochi minuti di irraggiamento UVC. Il colore giallo svanirà con l’esposizione alla luce solare ma rende evidente come non si debbano esporre corindoni per periodo prolungati alle UVC. FOTO: Richard Hughes, film. Un ulteriore avvertimento riguarda un tipo di fluorescenza UVC verde opaca talvolta vista in zaffiri blu naturali non trattati (in particolare quelli del Madagascar). La fluorescenza tende ad essere debole ed estremamente superficiale essendo limitata a sottili strati in superficie. Inoltre le macchie fluorescenti tendono ad avere confini più definiti rispetto alla reazione esibita dalle pietre riscaldate (Figure 10-12). Analizzare la fluorescenza. In senso stretto la fluorescenza è l’emissione di energia visibile di una lunghezza d’onda più lunga allorché viene bombardata da energia di lunghezza d’onda più corta. L’energia stimolante può essere costituita da Raggi X (fluorescenza ai raggi X), luce ultravioletta (fluorescenza UV) o anche luce visibile. Il rubino fornisce un eccellente esempio di quest’ultima. Quando si mette un rubino alla luce solare alcuni elettroni sono eccitati verso orbite più alte, producendo l’assorbimento delle corrispondenti lunghezze d’onda. Ma invece di ritornare direttamente allo stato fondamentale gli elettroni cadono gradualmente scendendo via via a livelli intermedi più bassi. In molti casi il rilascio di energia da ciascuno di questi step è nella forma di fononi verso il reticolo cristallino (riscaldamento vibrazionale e pertanto invisibile all’occhio umano). Ma nel caso dei rubini alcune emissioni rientrano nella banda visibile del rosso (a 692,8 e 694,2 mm). Questo è quel che rende il rubino così speciale: non solo possiede un colore di fondo rosso, ma su questo insiste la fluorescenza rossa. Questa è la ragione che portò gli antichi a ritenere che il rubino avesse un fuoco che vi bruciasse dentro. La fluorescenza UV può essere un indicatore estremamente sensibile non solo delle impurità in traccia ma anche delle condizioni sotto le quali la gemma si è formata. A dire il vero non è raro che si veda la fluorescenza da ioni altamente fluorescenti nel range di 0,01 parti per milione (ppm). Per i meno esperti questi sono valori di poco conto, ben oltre i limiti di rilevamento di tutti gli strumenti, fatti salvi quelli più sofisticati e costosi. Zaffiro. Entriamo nel merito. Mentre la fluorescenza rossa dei rubini è riportata in dettaglio in molti testi gemmologici (Cfr. Hughes 1997), la causa della fluorescenza “gessosa” non è stata descritta. Diamoci uno sguardo. Lo zaffiro in genere non mostra fluorescenza alla luce naturale. Ma se lo esponiamo alle onde corte UV la cosa cambia. Lo si vede nel modo più chiaro nello zaffiro sintetico incolore che mostra un’emissione bianco-bluastra (“gessosa”) nel range di 410-420 nm. Zaffiro sintetico. Questa fluorescenza blu nello zaffiro sintetico è stata osservata almeno dal 1948. Anche se è stata generalmente ignorata nella letteratura gemmologica, è stata oggetto di numerosi articoli scientifici. (Cfr. Evans 1994). Evans dedusse, dopo la revisione dei dati, che il picco di fluorescenza a 410- 420 nm era dovuto alla transizione del trasferimento di carica- al TI4+. Ciò fu in seguito confermato da Wong et alia (1995a e 1995b). Producono tale fluorescenza ioni isolati Ti4+ o coppie Ti-Al con difetto di lacuna. La transizione del trasferimento di carica- al Ti4+ nel corindone è così forte e così alta l’efficienza che la fluorescenza si osserva con facilità ad occhio anche a solo 1 ppm di Ti4+. La maggior parte dello zaffiro sintetico sul mercato contiene Ti4+ almeno ad 1 ppm, se non di più, dal materiale di partenza, Al2O3. È così mostra una fluorescenza che si assesta ad un picco di circa 415 nm con concentrazioni basse di Ti4+. Ma, con il crescere delle concentrazioni, le bande di fluorescenza si allargano ed il picco si sposta fino ai 460 o 480 nm, facendo apparire la fluorescenza più verdastra-blu o biancastra-blu. Il motivo per cui si determini questa fluorescenza gessosa ha a che vedere con la temperatura di crescita e con le concentrazioni di Ti4+ relative ad altre impurità. Nei corindoni sintetici a produrre la fluorescenza gessosa sono le alte temperature di crescita e le alte concentrazioni di Ti4+. In taluni zaffiri trattati termicamente con bassi livelli di ferro (come quelli dello Sri Lanka) l’alta temperatura del trattamento crea condizioni simili a quelle del sintetico. Di qui la fluorescenza gessosa. Zaffiri naturali. Ma che dire degli zaffiri naturali non trattati? Perché non mostrano fluorescenza blu o bluastra-bianca? La ragione è da collegarsi alle temperature e ai tempi di crescita. Gli zaffiri naturali cristallizzano a temperature molto più basse tanto che è improbabile che Ti4+ possa appaiarsi con lacune di Al. Queste temperature più basse inoltre permettono un più facile accoppiamento di Ti4+ con altri ioni (in genere Fe2+ o o Mg2+) che impediscono la fluorescenza. Come fa un altro elemento di disturbo, la presenza cioè di Fe3+. E per finire, rimanendo il cristallo nella terra per milioni di anni, si verifica una lenta diffusione che permette al Ti4+ di appaiarsi lentamente con altri ioni con conseguente inibizione della fluorescenza. Zaffiro con trattamento termico. Perché dunque alcuni zaffiri blu trattati termicamente esibiscono una fluorescenza gessosa dal blu, al verde o bianca? E cosa ne causa la differenza d’aspetto? Quando rinvenuti in natura gli zaffiri blu (o i geuda) contengono in genere rutilo essolto. Il titanio è concentrato in questi microcristalli di rutilo. Quando la pietra è trattata per riscaldamento il rutilo si dissolve nel corindone per diffusione. Ma poiché la diffusione è lenta, la concentrazione locale di Ti4+ può essere considerevolmente alta. La concentrazione di Ti4+, nelle regioni in cui è alta, eccederà i compensatori di carica locali (Fe2+ o Mg2+) e così si formeranno ioni liberi di Ti4+. Inoltre la dissoluzione del rutilo indurrà necessariamente la creazione di alcuni difetti di vacanza nell’alluminio formando gruppi con vacanza reticolare di Ti4+-Al. Questi tipi esibiranno fluorescenza e così alcuni zaffiri trattati per riscaldamento la mostreranno in qualche misura come gli zaffiri sintetici che hanno ricevuto apporto di Ti. Poiché la distribuzione originale del rutilo (e del ferro in soluzione) si è concretizzata per zone, la distribuzione nella fluorescenza rifletterà quella zonatura. La fluorescenza sarà più intensa dove Fe è ai minimi e Ti4+ ai massimi cioè nelle aree di colorazione minima. Lo zaffiro basaltico ad alto contenuto di Fe (come quelli originari dell’Australia, della Thailandia ecc.) non mostrerà fluorescenza dopo il trattamento termico in quanto la concentrazione di ferro è ovunque molto più alta di quella di Ti4+. Superficiale. L’apparenza gessosa per quel che concerne la fluorescenza nei corindoni dipende decisamente dalle concentrazioni di Ti4+ e di Fe3+. Prendendo in considerazione dapprima Ti4+ è importante notare che l’assorbimento del trasferimento di carica negli UV per ione sia estremamente alto. Se si guarda la fluorescenza d’un pezzo di zaffiro sintetico con molti ppm di Ti4+ sembra che il blu si irraggi per il suo intero volume. Ciò avviene poiché l’assorbimento del trasferimento di carica è abbastanza basso così che i fotoni UV possono penetrare massicciamente nel campione. Quando la concentrazione di Ti4+ è più alta la fluorescenza sembra provenire da uno strato sottile vicino alla superficie perché è quella è la distanza massima che i fotoni UV possono penetrare. Ad alte concentrazioni di Ti4+ solo uno strato sottile di superficie viene penetrata dagli UV e la fluorescenza appare quale uno strato gessoso della superficie. (Figure 15 e 16). Anche l’assorbimento del trasferimento di carica del Fe3+ è molto alto. È così anche il ferro contribuirà a limitare la penetrazione di UV nel campione. Di conseguenza l’aspetto molto diverso della fluorescenza di alcuni zaffiri sintetici e di alcuni zaffiri naturali trattati per riscaldamento non è un fenomeno diverso bensì una differenza nella concentrazione delle impurità. Uno degli autori (JLE) ha usato un filtro Schott BG-12 per evidenziare la fluorescenza gessosa superficiale che si vede spesso nel rubino trattato per riscaldamento. Tale filtro elimina la fluorescenza rossa e trasmette la fluorescenza blu del Ti4+. Approccio gemmologico tradizionale v/s i fanatici del laser. I fanatici del laser concentrano la loro attenzione sul tema della fluorescenza degli ioni nei cristalli ma questo tema è senza sbocco in gemmologia. Guardiamo i diversi approcci. In gemmologia la fluorescenza specificamente è osservata con rilevazione solo visiva con radiazioni UVL e UVC e con risultati registrati in termini di luminosità, colore, presenza o assenza di fosforescenza. I parametri misurati nello studio degli ioni nei cristalli sono molto più estesi e dettagliati. Si suole misurare la distribuzione spettrale della fluorescenza così come la distribuzione spettrale della luce che è in grado di eccitare quella fluorescenza (spettro di eccitazione). Inoltre i parametri di decadimento temporale della fluorescenza sono misurati usando una fonte luminosa a impulso breve. A volte la curva di decadimento è una singola esponenziale che indica un sito singolo o un singolo ione. Altre volte la curva di decadimento è una combinazione di due o più esponenziali che indicano siti o ioni multipli. Tutti questi parametri sono spesso misurati come funzione della temperatura. Il mito della purezza. I cristalli non provengono da una fonte ideale ma, in natura, si generano in un brodo di coltura eterogeneo. Man mano che la crescita procede, la composizione chimica del nutriente cambia poiché i cristalli interagiscono con l’ambiente che li circonda. La diffusione é sempre una strada a doppio senso. La foto sopra, è un microcosmo che mappa perfettamente il senso di questo concetto. Le aree di composizione si evidenziano perfettamente delimitate in alcune zone mentre appaiono decisamente non omogenee e sfocate in altre. Il concetto che le creazioni della terra o quelle biologiche possano essere “pure” è un mito. Tutti sono prodotti del passato, tutti vengono influenzati dall’ambiente in cui si trovano influenzandolo a loro volta. Ciascuna condizione, inoltre è unica e precipua di quel particolare individuo come efficacemente illustrato nell’immagine sopra. Di conseguenza due individui non saranno mai identici. Riassumendo. Con la fluorescenza UV oggi abbiamo qualcosa di assolutamente poco frequente in gemmologia: un test economico che è da considerarsi efficace alla stregua dei più tecnologici e costosi apparati scientifici. Ora, questo che significa per un commerciante di gemme? Con una piccola lampada UV si può rapidamente verificare gli acquisti potenziali. Le pietre che mostrano fluorescenza gessosa con molte probabilità sono state riscaldate. Esborso totale per l’attrezzatura? La lampada da sola costa meno di €300. Heh, heh, heh, già vi vediamo sorridere. E per il gemmologo con laboratorio? La comunità gemmologica ha sottostimato questa tecnica. La fluorescenza può rappresentare una risorsa efficacissima per determinare se alcuni zaffiri abbiano ricevuto un trattamento per riscaldamento a temperature più basse di quelle normalmente usate per i geuda. Ma per far ciò sarà necessario adottare un po’ delle tecniche e delle strumentazioni dello specialista laser. Se da un lato investire le ingenti risorse richieste per queste strumentazioni non trova giustificazione senza precise garanzie su cosa si può praticamente imparare, dall’altro, il continuo ed incessante sviluppo di nuove tecniche di trattamento impone necessariamente di espandere il ventaglio di analisi diagnostiche. Una strumentazione sofisticata basata sulla fluorescenza è assai più economica delle analisi con SIMS, LA-ICP-MS o LIBS. Forse non é così attraente (ma neanche tanto costosa!) ma quando si arriva al punto dell’efficacia sembra comunque un bell’aiuto. Bibiografia. Crowningshield, R. (1966) Developments and Highlights at the Gem Trade Lab in New York: Unusual items encountered [sapphire with unusual fluorescence]. Gems and Gemology, Vol. 12, No. 3, Fall, p. 73. Crowningshield, R. (1970) Developments and Highlights at GIA’s Lab in New York: Unusual fluorescence. Gems and Gemology, Vol. 13, No. 4, Winter, pp. 120–122. Evans, B.D. (1994) Ubiquitous blue luminescence from undoped synthetic sapphire. Journal of Luminescence, Vol. 60–61, pp. 620–626. Hoover, D.B. and Theisen, A.F. (1993) Fluorescence excitation-emission spectra of chromium-containing gems: An explanation for the effectiveness of the crossed filter method. Australian Gemmologist, Vol. 18, No. 6, May, pp. 182–187. Hughes, R.W. (1997) Ruby & Sapphire. Boulder, CO, RWH Publishing, 512 pp. Robbins, M. (1994) Fluorescence: Gems and Minerals Under Ultraviolet Light. Phoenix, AZ, Geoscience Press, 374 pp. Wong, W.C., McClure, D.C. et al. (1995b) Charge-exchange processes in titanium-doped sapphire crystals. I. Charge-exchange energies and titanium-bound exitons. Physical Review B, Vol. 61, No. 9, pp. 5682–5692. Wong, W.C., McClure, D.C. et al. (1995a) Charge-exchange processes in titanium-doped sapphire crystals. II. Charge-transfer transition states, carrier trapping, and detrapping. Physical Review B, Vol. 61, No. 9, pp. 5693–5698. Ringraziamento. RWH desidera ringraziare John I. Koivula per il suo incoraggiamento ed i suoi suggerimenti durante la scrittura di questo articolo. Gli autori. Richard Hughes è l’autore del classico testo sui corindoni, “Ruby & Sapphire”e di oltre 100 articoli sui più vari aspetti gemmologici. I suoi testi possono essere consultati sul suo sito web personale, www.ruby-sapphire.com Il Dottor John Emmett è una delle autorità più eminenti al mondo riguardo i trattamenti termici, la fisica, la chimica e la cristallografia dei corindoni. E’ stato direttore associato del Laboratorio Nazionale Lawrence Livermore e co-fondatore della “Crystal Chemistry”, azienda impegnata nello studio dei trattamenti delle gemme. Questo articolo segue il ritorno di RWH all’impegno gemmologico “serio” nel gennaio 2005, quando entrò a far parte del Gem Testing Center (GTC) dell’American Gem Trade Association (AGTA). Mentre osservava la fluorescenza UVC in uno zaffiro riscaldato, decise di chiamare JLE e chiedergli un parere sulla presenza di questa razione gessosa in zaffiri sia riscaldati che sintetici. “È interessante che tu mi abbia chiamato” - replicò Emmet - “di recente mi è capitato più volte di ragionare sul fenomeno”. Così fu che entrambi iniziarono a scambiarsi opinioni e pareri sul oggetto da cui poi è nato questo articolo. Buttato giù in prima stesura nella prima metà del 2005, la prima versione riveduta e corretta è apparsa su THE GUIDE (Sett-Ott 2005, Vol 24. Issue 5, Part 1, pp. 1,4-7). Alcune parti sono anche state pubblicate negli aggiornamenti di laboratorio del GTC dell’AGTA. Scarica l'articolo in PDF. ![]()
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Maggio 2019
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