Hong Kong mette al bando l’avorio. Grazie alla legge approvata negli scorsi giorni dal Parlamento, il commercio di avorio nello stato asiatico verrà vietato entro il 2021. Si tratta di un grande passo in avanti verso la protezione degli elefanti, messi in pericolo dal mercato miliardario dell’avorio: negli ultimi anni, infatti, sono stati uccisi oltre 30.000 esemplari. La notizia non è di poco conto, in quanto Hong Kong rappresenta uno degli snodi fondamentali del mercato illegale del prezioso materiale. La decisione arriva soltanto pochi giorni dopo l’annuncio di una delle più grandi operazioni contro il contrabbando d’avorio effettuate negli ultimi tempi. In Gabon, paese che ospita il più alto numero di elefanti delle foreste (Loxodonta cyclotis) al mondo, è stata smantellata una corposa rete di trafficanti illegali, con collegamenti anche al gruppo terroristico Boko Haram. Sono oltre 6 le tonnellate di avorio vendute e spedite attraverso tutto il continente. A causa di questi commerci, la popolazione degli elefanti nello stato atlantico africano è diminuita da 60.000 a 35.000 unità negli scorsi decenni. Ma a sparire sono anche le persone che lottano contro il traffico illegale: è recentissima la notizia dell’omicidio di Esmond Bradley Martin, un’autorità mondiale sul traffico di avorio e corni di rinoceronte. Esmond è stato ucciso il 5 febbraio 2018 a Nairobi, in Kenya, mentre era impegnato a scrivere un rapporto su quanto aveva scoperto. La sua morte è una perdita enorme per la comunità conservazionista internazionale, in quanto ha documentato e fotografato vendite illegali facendosi spesso passare per un ricco compratore al fine di verificare i prezzi al mercato nero.
Ma come è nata la passione sfrenata verso questo prezioso materiale, che ha portato alla carneficina degli elefanti nel corso degli ultimi millenni? Tutto si deve alle particolari caratteristiche dell’avorio, che ne hanno sempre fatto un materiale di particolare pregio per la produzione di gioielli, suppellettili ed oggettistica: la bellezza e l’elasticità dell’avorio fornito dalle zanne degli elefanti non ha eguali e difficilmente i materiali atti a sostituirlo riescono a riprodurne il colore, la grana, la lucidità e l’attitudine alla politura brillante dell’originale. La strage degli elefanti parte fin dall’Impero Romano nel I° secolo d.C., colpevole di aver decimato la popolazione faunistica nel nord africa, continuando con i paesi Islamici attorno all’anno 1000, allorché presero il controllo del commercio d’avorio negli stati africani orientali (da cui la “Costa d’Avorio” trae il proprio nome), per finire al boom di richieste della seconda metà del 1900 da parte dei paesi industrializzati (USA, Europa e, negli ultimi tempi, Asia). La sensibilizzazione verso il problema del rischio estinzione degli elefanti si è fatta sempre più ampia negli ultimi tempi e ha coinvolto diversi governi che hanno cercato di fermare il commercio illegale attraverso vari metodi tra cui la distruzione delle proprie scorte d’avorio (Kenya, 1989; Zambia, 1992). Tuttavia, il numero di elefanti è continuato a diminuire e le immagini dei massacri causati dai bracconieri illegali hanno fatto il giro del mondo. Il commercio illegale si è ramificato lungo tutto il continente africano ed ormai coinvolge migliaia di persone, complesse organizzazioni, con complicità politiche e corruzione a vari livelli. Dai mercati africani del Cairo, di Lagos e di Kinshasa, dai porti di Mombasa, Dar es Salaam e Città del Capo, le rotte commerciali arrivano fino ai maggiori mercati asiatici come Hong Kong, Thailandia, Malesia, Giappone. Le iniziative legislative prese dal governo di Hong Kong possono forse mettere un freno al commercio illegale, ma soltanto se questo tipo di approccio venisse seguito da parte di tutti i governi dei paesi asiatici terminali della filiera illegale. La chiave potrebbe essere trovata nell’azione diretta dove si origina la domanda, per arrivare poi a colpire le singole organizzazioni responsabili del bracconaggio nei luoghi d’origine. Il nostro pianeta è ancora fonte di sorprese nel sottosuolo. Ogni anno, infatti, vengono scoperti circa 150 nuovi minerali nelle varie zone estrattive attive sulla Terra e, se si è fortunati, si riesce a dare ad un nuovo minerale il proprio nome. È questo il caso della Nataliyamalikite, un nuovo minerale scoperto in Russia durante il 2017 e presentato dal Professor Joël Brugger sull’American Mineralogist. Il nome al minerale è stato assegnato in onore della Dott.ssa Nataliya Malik, ricercatrice presso l’Istituto di Vulcanologia e Sismologia della Russian Academy of Sciences di Petropavlovsk-Kamchatsky, Kamchatka, Russia, che è stata la prima ad osservare il minerale con il microscopio elettronico. La Nataliyamalikite è stata scoperta nella penisola della Kamchatka, una delle zone con più vulcani attivi al mondo (ce ne sono 29 attivi su un totale di 160), nei pressi del vulcano Avacha. Il minerale si presenta con un abito cristallino ortorombico e contiene tallio, metallo pesante più conosciuto per i suoi effetti altamente tossici. |
Archivi
Maggio 2019
|